Un viaggio in Namibia compone un atollo costellato da decine di isole geologiche, faunistiche e climatiche
Quando nel 1921 il geologo ed esploratore Reinhard Maack scoprì, su uno dei fianchi rocciosi dell’altopiano del Damaraland, un’impressionante successione di incisioni rupestri, non poteva sapere che questo luogo contraddistinto dalle accensioni rossastre dell’arenaria e dai riflessi rosa del granito, avrebbe trovato un nome solo dopo la seconda guerra mondiale.
La selvaggia bellezza della Namibia
Fu grazie a un fattore di origine sudafricana, David Levin, che per primo decise di stabilirvi il ranch chiamandolo Twyfelfontein, in lingua afrikaan “sorgente incerta”, che attualmente è non solo uno dei più straordinari siti di incisioni rupestri dell’Africa australe, ma emblema della bellezza selvaggia di tutta la Namibia. Volto e rimescolamento carnale di cui i petroglifi sono traccia indelebile, inscritti in luoghi in cui è possibile incontrare gli stessi kudu e giraffe che più di 5000 anni fa erano oggetto dei riti sciamanici dei San, spesso conosciuti come boscimani.
Ma oltre a sancire l’antica presenza di questo popolo di cacciatori seminomadi la cui linea genetica porta agli antenati comuni di tutta l’umanità, nel Damaraland l’esplosione di sfumature cromatiche e forme sconcertanti – alcune rocce tonde richiamano alla mente i cartoon dei Flinstones – sono una espressione di libertà assoluta. La cifra distintiva dell’anima polifonica della Namibia, che nella lava e nei fenomeni erosivi ha avuto il reagente. Un Paese grande tre volte l’Italia e con soli due milioni di abitanti, in cui i paesaggi scivolano uno sull’altro: dalle montagne a cima piatta del Damaraland, alla savana del Kalahari, passando per la scarpata dell’altipiano centrale e l’immenso deserto del Namib, un viaggio in Namibia compone un atollo costellato da decine di isole geologiche, faunistiche e climatiche.
Collegate tra loro da strade sterrate che sono cresciute come un rampicante lungo il Paese, mettendo in contatto popoli divisi da secoli di rivalità, regioni abitate da animali rarissimi, quali il rinoceronte e il ghepardo, e persino fasce costiere in cui è proibito l’accesso, consegnate alla sola raccolta dei diamanti. D’altra parte se la Namibia è rimasta un protettorato del Sud Africa fino al 1991, è proprio a causa dei diamanti, che oggi insieme all’uranio contribuiscono a fare dell’estrazione la prima voce dell’economia. Ma prima di tutto questo, molto prima – i diamanti sono stati scoperti solo un secolo fa – c’è stato il setaccio della preistoria che attraverso sollevamenti tettonici, camini vulcanici ed erosione ha permesso l’affioramento di rocce e minerali databili centinaia di migliaia di anni.
Una terra inospitale e sublime
Tra falesie erose dal vento e canyon profondissimi, di cui il Fish River è il fratello maggiore, in Namibia si alternano gole dal fondo verdissimo e creste di dolerite nera e spigolosa. E dove non c’è roccia, ci sono la sabbia e l’oceano a rendere inospitale e sublime questa terra. La Skeleton Coast è come una mappa aperta su centinaia di relitti, causati dalla fitta nebbia e dalla furia dell’oceano: ha qualcosa di spettrale e segna un quasi totale abbandono della civiltà. Oltre, solo colonie di otarie, elefanti del deserto, immensi parchi (di cui l’Etosha, più ad est, è il gioiello) e villaggi himba – l’unica popolazione immune al progresso, le cui donne continuano a spalmarsi la pelle di ocra e grasso animale, e che vivono in piccoli e isolati villaggi.
Da una parte tradiscono l’impronta coloniale tedesca, la paura dell’irrilevanza e le successive atrocità compiute sulla popolazione locale – in particolare il genocidio degli Herero, una ferita ancora aperta tanto da aver provocato pochi anni fa la rimozione della statua simbolo della capitale Windhoek; dall’altra testimoniano il desiderio un po’ naif di voler ricreare città giardino a propria immagine e somiglianza, delle pleasantville formato africano. Come nella graziosa Swakopmund, costruita alle soglie del Novecento in piena ambizione guglielmina. Chiamata la piccola Baviera del deserto, appare come una allucinazione nel freddo pungente che sale direttamente dal polo, tramite un ascensore naturale chiamato corrente del Benguela.
Un mondo postcoloniale tra memoria e rinnovamento
Una dimensione lunare corroborata dalla spettacolare distesa di guglie smussate e canyon a perdita d’occhio, ai cui bordi si trova anche l’antenata delle conifere, tanto bizzarra nell’aspetto quanto unica nella definizione botanica: la welwitschia. Tra il faro e le case dai tetti appuntiti che ricordano i gloriosi tempi del kaiser, oggi Swakopmund oltre a essere il salotto di un mondo postcoloniale sospeso tra memoria e rinnovamento, è la rampa di lancio verso le meraviglie dell’Atlantico e quelle del deserto.
La ricchezza di plancton ha fatto diventare questa porzione di oceano un gigantesco forziere stracolmo di ostriche e frequentato dalle foche sudafricane, le otarie, che a Cape Cross sembrano un tableau vivant ritagliato dal polo sud e appiccicato sul bordo del deserto. Appena poco più indietro, nel Namib, l’inversione termica prodotta dalla corrente del Benguela impedendo l’evaporazione ha immobilizzato un deserto che con i suoi 80 milioni di anni è considerato il più antico del pianeta.
Il Namib è una creatura poetica, che attraverso una lingua – quella del silenzio – racconta la sua verità, nuda come la distesa di dune che a Sossusvlei tagliano l’orizzonte. Nel Namib la verità del deserto coincide con l’esperienza del deserto: la luce tenue dell’alba che sembra riversarsi nei riflessi violacei del manganese e in quelli arancioni del quarzo, il tonfo netto della sabbia che cede sotto il piede, l’ascesa paziente verso il Big Daddy – la duna più alta del mondo, con i suoi 318 metri – il caldo avvolgente, la discesa a capofitto, il ristoro all’ombra di una acacia.
Una iniziazione ancestrale che qui più che altrove ci ricorda che l’uomo è un essere infinito, ma di passaggio: esposto alla temporalità, mobile come le creste di queste dune e sempre alla ricerca di storie. Il silenzio diventa libero, nel deserto del Namib, perché puoi sentirlo parlare di te: da dove veniamo, cosa siamo, cosa avremmo potuto essere e soprattutto, sotto questa luce definitiva, ciò che non siamo più.
Fonte: nationalgeographic.it
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