Un piccolo borgo sull’isola di Cres che pochissimi turisti conoscono e che è considerato il paradiso delle vacanze estive
Poche case, pochi turisti (anche ad agosto), due belle spiagge: in Croazia c’è un piccolo borgo che pochissimi turisti conoscono e che è il paradiso delle vacanze estive.
Chi conosce Valun se lo tiene per sé. Non ci sono hotel. Solo case in affitto. Il luogo perfetto dove trascorrere le vacanze con la propria famiglia. Qualche trattoria tipica dove servono cucina tradizionale (la specialità sono gli scampi) a poco prezzo, un mini-market e un’edicola-tabaccaio. Non è un meta propriamente low cost. La Croazia, infatti, da qualche anno ormai non è più considerata una delle mete più economiche dove andare d’estate.
Valun si trova sull’isola di Cres, in italiano Cherso, una delle isole dell’arcipelago del Quarnero, a circa 150 chilometri dal confine italiano. Si sviluppa lungo l’omonima baia, racchiusa tra le due spiagge di ciottoli come un piccolo gioiello.
In origine era il porto del vicino villaggio di Bucev, i cui resti si trovano vicino alla chiesa di San Marco, sul colle che sovrasta l’attuale Valun. Oggi è un piccolo villaggio molto pittoresco, raccolto attorno al minuscolo porto dove non è consentito l’accesso alle auto e dove possono attraccare al massimo quattro o cinque barche.
Il molo è un po’ il “salotto buono” del villaggio. Qui si incrociano i villeggianti che passeggiano dopo il tramonto che fanno avanti e indietro: andando a sinistra si finisce ai parcheggi, mentre proseguendo verso destra si arriva a una delle due spiagge di Valun e all’unico campeggio della zona, molto piccolo e spartano, ma in una posizione splendida.
La spiaggia più vicina al paese, quella che si incontra proseguendo a destra dal porto, è di ciottoli bianchi, è attrezzata con docce ed è utilizzata anche dai campeggiatori, quindi a volte può essere un po’ affollata, ma proseguendo oltre la baia con un sentiero che attraversa il bosco si arriva a altre piccole baie più isolate con scogli e qualche caletta di ciottoli.
Se dal molo si prosegue con la passeggiata lungomare a sinistra, si superano le spiagge di roccia e si procede oltre la punta che delimita la baia del paese, camminando per altri 500 metri si arriva in una grande baia di ghiaia bianca con l’acqua turchese, circondata dalla macchia mediterranea che, nelle ore più calde, regala angolini freschi dove schiacciare un pisolino o leggere un buon libro. Chi ci arriva all’ora del tramonto scoprirà che anziché bianca la spiaggia diventa dorata: il merito è del tramonto che trasforma questo angolo magico in un luogo decisamente romantico.
A Valun la vita scorre lenta. Qui ci viene solo chi è in cerca di totale relax. Oltre alla vita di mare si possono fare delle piacevoli passeggiate lungo i sentieri che corrono dietro il paese e lungo la costa fino alla Punta Pernat, da dove si può proseguire lungo quei sentieri che venivano usati dai pastori e dai contadini per accedere ai loro campi; in buona parte questi sentieri sono stati ripuliti e resi più facilmente accessibili, possono essere percorsi sia a piedi che in bicicletta e connettono, oltre ai paesi sulla penisola, anche le baie che affacciano al mare. Una curiosità: sull’isola di Cres non ci sono serpenti velenosi di cui preoccuparsi durante le escursioni. Secondo una leggenda, infatti, le serpi sarebbero state maledette e allontanate da S. Gaudenzio, patrono di Osor, durante gli anni in cui visse da eremita sul monte Televrin, vicino a Osor.
Per chi volesse allontanarsi, sulla punta meridionale dell’isola, a Punta Kriza, sono stati inaugurati di recente oltre 12 km di sentieri turistici di diverso livello, dai più facili ai più difficili, tutti ben segnalati. Quando il sentiero attraversa un’area archeologica di particolare interesse, sono disponibili delle guide dal museo di Cres che spiegano ai visitatori la storia del sito.
Fonte: SiViaggia.it
Savusavu, il “paradiso nascosto” delle Fiji, questa settimana ha visto il lancio di una nuova operazione turistica di nicchia:
KokoMana Cocoa and Chocolate Tours.
“Stiamo offrendo il tour Tree to Bar della fattoria del cacao e della fabbrica di cioccolato, per mostrare ai visitatori come viene prodotto il cioccolato, dalla scelta delle varietà di piante di cacao più adatte fino al cioccolato finito”, ha affermato Anne Moorhead, Direttore di KokoMana e Chocolate Maker. “Non ci sono molti posti al mondo in cui puoi vedere l’intero processo, quindi pensiamo che stiamo portando qualcosa di nuovo nella regione.”
Spiega che il cacao cresce solo vicino all’equatore, mentre il cioccolato può essere prodotto solo in un ambiente fresco e asciutto. “Ecco perché, in passato, il processo è stato diviso in due. Le fave di cacao essiccate venivano spedite in luoghi più freddi per fare il cioccolato. Ma ora, con i moderni sistemi di climatizzazione, possiamo produrre il cioccolato proprio qui”.
Visitare l’azienda agricola sarà anche un’esperienza piacevole per gli amanti della natura. “Stiamo coltivando il nostro cacao in un sistema agroforestale, il che significa che abbiamo mantenuto gli alberi e le piante utili già esistenti e ne abbiamo piantati molti altri”, spiega Richard Markham, partner di Anne e condirettore. Ciò ha benefici non solo per l’agricoltura, ma anche per la biodiversità. “Stiamo lavorando con la natura, dimostrando che l’agricoltura non deve distruggere gli ecosistemi, ma può lavorare con loro”. Molte specie di uccelli e farfalle autoctone presenti nell’azienda dimostrano che questo funziona: i visitatori probabilmente vedranno (o sentiranno) il bianco gli occhi, i fischi d’oro e molti altri uccelli autoctoni, e la farfalla coda forcuta delle Fiji ha fatto della fattoria la sua casa, dove sono presenti esemplari in numero sempre maggiore da quando Richard ha piantato la sua pianta alimentare larvale.
Come produttore di cioccolato, l’obiettivo principale di Anne è produrre cioccolato eccellente. “La produzione di cioccolato dal gusto raffinato è una nicchia in crescita in tutto il mondo e speriamo di inserire Savusavu sulla mappa delle produzioni migliori. Stiamo lavorando duramente per produrre un cioccolato davvero buono”. I tour termina con una degustazione di cioccolato e l’opportunità per i turisti di acquistare un po’ di “cioccolato magico dalle Figi”.
Fonte: South Pacific Tourism Organisation
TULIA ZANZIBAR, A PIEDI NUDI IN UN PARADISO
PER ANIME ROMANTICHE
Situata sulla costa orientale di Zanzibar, Tulia Zanzibar si trova proprio sulla punta della spiaggia di sabbia bianca e fine di Pongwe, uno dei tratti più belli dell’isola, con infiniti boschi di palme e una splendida barriera corallina che crea una laguna vasta ma poco profonda.
Immagina di svegliarti ogni giorno in uno 16 eleganti bungalow costruiti in pietra e legno locali che sono stati accuratamente sparsi nei rigogliosi giardini della tenuta, alcuni dei quali situati a pochi passi dalle invitanti acque turchesi.
Una vasta gamma di ottimi servizi assicurano che il tuo soggiorno sia il più memorabile: favolosi giardini tropicali, una spiaggia privata, piscine infinity con bar e una Spa formano il cuore di questa oasi di pace. Un cinema all’aperto e l’osservazione di un cielo notturno spettacolare offrono un’attività serale molto rilassante.
Per le anime più attive, l’uso della palestra, dei kayak e delle biciclette è offerto gratuitamente mentre si possono organizzare facilmente escursioni per l’avvistamento di delfini, percorsi in quad, tour nella foresta, escursioni a Stonetown, snorkeling, immersioni, kite, surf, golf e molto altro.
Ogni giorno con le maree, in alcuni punti l’acqua si ritira per centinaia di metri per rivelare il fondo lagunare di sabbia, coralli e alghe. Un’esperienza unica, proprio come la coltivazione di alghe nella laguna curata dalla gente del posto. Un altro punto forte per gli ospiti è visitare i giardini dell’hotel dove vengono prodotti verdure, erbe aromatiche e frutta che verranno utilizzati direttamente per la preparazione di ottimi piatti al ristorante, dal giardino direttamente a tavola!
Cenare al Tulia Zanzibar è davvero un’esperienza speciale con deliziosi piatti realizzati con menu della cucina internazionale, rivisitati con l’aggiunta di ingredienti locali e ispirati ai sapori costieri. Se desideri un po’ più di solitudine, una breve passeggiata ti porterà in una tenda con comodi cuscini e persino un mini bar per godere un picnic gourmet sulla spiaggia.
Non dovrebbe sorprendere che Tulia Zanzibar sia stato premiato come il miglior resort romantico sulla spiaggia che collega i suoi ospiti con la vera Zanzibar.
Fonte: xoprivate.com
Non lontano da Waikiki, la zona a sud-est dell’isola di Oahu,
nell’arcipelago delle Hawaii, è ricca di luoghi sorprendenti!
La regina è sicuramente la stupenda Hanauma Bay, una riserva naturale marina situata all’interno di un cono vulcanico che racchiude un ecosistema incontaminato. La spiaggia a mezzaluna, circonda da palme, si affaccia su un mare dalle molteplici sfumature di azzurro, un vero paradiso per lo snorkeling! La baia è visibile dapprima dall’alto e, già dal primo sguardo, l’acqua cristallina svela la ricchezza del fondale che ospita coralli, pesci colorati e tartarughe marine!
Il Makapu’u Lighthouse, il faro più famoso dell’isola di Oahu e quello con la più grande lente in tutti gli Stati Uniti, sembra posto a sentinella sulle rocce davanti ad un oceano che fa sentire con forza la sua presenza. È un punto privilegiato per vedere le Humpback whales, le maestose megattere che migrano in queste acque durante i mesi invernali per riprodursi e mettere al mondo i loro piccoli. Vale la pena affrontare il sentiero in salita per raggiungere il faro che svetta su un tratto di costa di incredibile bellezza.
Hawaii Kai è una perla nascosta alle spalle di Hanauma Bay. Antico “fishpond”, un bacino d’acqua dove veniva praticata l’acquacoltura, Hawaii Kai fu trasformata in zona residenziale sin dall’inizio degli anni ’60. Il suo fascino è indescrivibile e il tramonto regala momenti indimenticabili.
Imperdibile è il Halona Blowhole: una fessura che restituisce un potente spruzzo di acqua proveniente dal mare che si infrange sulla roccia lavica liberando una grande energia. Ricorda quello emesso dalle megattere che visitano questi mari. Questo litorale è stato scelto da numerosi registi quale set di film come Pirati dei Caraibi, Jurassic Park e il famoso e pluri-premiato Da qui all’eternità, From Here to Eternity. Ricordo il romantico Burt Lancaster mentre regalava un audace bacio alla splendida Deborah Kerr, sdraiati sulla sabbia dorata della spiaggetta adiacente, che da allora ha preso il nome di Eternity beach!
L’escursione più avventurosa nella zona ha un nome: Koko Head Crater Hike! Non mentirò dicendo che si tratta di una passeggiata! Durante la Seconda Guerra Mondiale, lungo il cono di tufo del Koko Crater, fu costruito un percorso ferrato per trasportare rifornimenti alla vedetta di guardia che si trovava sulla sua sommità. Nonostante le 1048 traversine di legno, ormai molto sconnesse, e una pendenza estremamente impegnativa, sono in molti a voler raggiungere la vetta da cui si gode una vista mozzafiato. I più sportivi affrontano la salita sfidando sé stessi, con un pizzico di competizione, cronometrando il tempo impiegato per raggiungere l’ambita meta!
Trovo questo “hike” davvero irresistibile anche se, una volta in cima, rimango sempre letteralmente senza fiato: voglio credere che sia a causa dello stupore nel vedere un simile panorama e
non per la scalata che mi ha messo a dura prova!
Foto: hawaiimagazine.com
Una chiesa e un monastero inaugurati a Abu Dhabi.
Il più antico sito cristiano degli Emirati Arabi
DOPO OLTRE VENT’ANNI DI LAVORI APRE IL SITO CRISTIANO RISALENTE AL VII SECOLO SULL’ISOLA DI SIR BANI YAS. UN EVENTO CHE SUGGELLA UNA STAGIONE DI DIALOGO INTERRELIGIOSO DI CUI GLI EMIRATI ARABI SI FANNO PORTAVOCE NELL’ANNO DELLA TOLLERANZA.
L’apertura del sito cristiano di Sir Bani Yas rappresenta la riscoperta di antiche radici in cui la convivenza tra cristiani e musulmani caratterizzava questa zona del Medioriente. Oggi, parallelamente a una rinascita degli Emirati Arabi e a un flusso turistico internazionale, si punta a promuovere il dialogo interreligioso e interculturale, offrendo al mondo antiche tradizioni e reperti archeologici, coniugati con nuove costruzioni e infrastrutture all’avanguardia.
LA CHIESA E DEL MONASTERO DI SIR BANI YAS
Scoperto nel 1992, questo sito è stato recentemente inaugurato e aperto ai visitatori. La chiesa e il monastero di Sir Bani Yas risalgono al VII e VIII secolo d.C: la riscoperta è avvenuta tramite scavi archeologici, che sono iniziati con il ritrovamento di alcune case e del muro di cinta che le circondava nel 1992, fornendo una prima descrizione della pianta del sito. Due anni dopo, alcune croci di intonaco hanno rivelato l’esistenza di una chiesa. Tra i reperti rinvenuti ci sono svariati oggetti di vetro e ceramica testimoni di un commercio all’epoca ampiamente praticato nel Golfo Arabico. Una volta completati gli scavi, è stato messo a punto un programma di conservazione incluso in un piano più ampio per la gestione dell’intera isola; questo permetterà di monitorare le condizioni dell’area e definire futuri piani in materia di scavi, ricerche e attività di restauro.
LA DICHIARAZIONI DEL MINISTRO DELLA TOLLERANZA
Alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato SE Sheikh Nahyan bin Mubarak Al Nahyan, Ministro della Tolleranza, SE Mohamed Khalifa Al Mubarak, Presidente di DCT Abu Dhabi e SE Saif Saeed Ghobash, Sottosegretario di DCT Abu Dhabi, insieme a restauratori, archeologi, media e autorità ecclesiastiche cristiane. “Il sito archeologico di Sir Bani Yas ha ricevuto un’attenzione particolare dal padre fondatore degli EAU, Sheikh Zayed bin Sultan Al Nahyan, in virtù del profondo significato e valore che detiene come eredità storica del patrimonio culturale degli Emirati”, ha affermato il Ministro SE Sheikh Nahyan bin Mubarak Al Nahyan. “Sheikh Zayed ha svolto un ruolo chiave nel sostenere gli scavi archeologici, studi e ricerche legate alla storia e al patrimonio. Ha accolto numerose spedizioni archeologiche nell’Emirato e ha fondato l’Al Ain Museum, per mostrare le scoperte e i manufatti derivanti da queste imprese e fornire uno sguardo sullo stile di vita di quelle comunità ha hanno abitato la regione prima di noi”.
CHIESE CRISTIANE: UNA NUOVA APERTURA DEGLI EMIRATI ARABI
Mentre Dubai ha consolidato la sua fama di capitale del lusso sfrenato, la sorella Abu Dhabi, emersa successivamente, si sta sviluppando in un senso più inclusivo e con un’offerta diversificata. Non solo, quindi, una meta per paperoni, ma aperta a un turismo worldwide, per tutti gli interessi e per (quasi) tutte le tasche. In questo processo, la tolleranza tra i popoli costituisce un tassello essenziale: all’inizio del 2019, considerato il The Year of Tolerance negli Emirati, Papa Francesco ha fatto visita a questi luoghi, firmando assieme al Grande Imam di Al Azhar il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. “La chiesa e il monastero di Sir Bani Yas fanno luce sulla nostra storia culturale, di cui possiamo essere orgogliosi”, ha aggiunto il Ministro della Tolleranza, riferendosi ancora al sito cristiano da poco riscoperto, “l’esistenza di questo luogo è la prova dei valori di tolleranza ed accettazione che da sempre caratterizzano la nostra terra. Ciò sottolinea ulteriormente l’importanza del dialogo interculturale e della collaborazione, poiché il sito fornisce la prova dell’apertura degli EAU verso le altre culture”.
Fonte: Artribune.com – Giulia Ronchi
Il fiume, che forma un bacino idrografico di 3.254.555 kmq e vanta una portata di oltre 1.600 miliardi di metri cubi l’anno, attraversa paesi poveri e dipendenti dall’agricoltura che fanno affidamento sulle sue acque. E una serie di squilibri continuano a sussistere.
Sulla strada per Jnjia la successione senza fine di case, casette e casupole con il tetto di tegole rosse come la terra degli sterrati che le uniscono e di piccoli esercizi commerciali, si alterna a gigantesche piantagioni di tè e canna da zucchero, a terreni desolatamente disboscati e a tratti miracolosamente intatti della foresta tropicale che un tempo copriva l’Uganda. Questo doveva essere il paesaggio che videro gli esploratori alla ricerca delle mitiche sorgenti del Nilo, Speke, Stanley, Burton, Livingstone, e altri grandi protagonisti dell’epopea delle esplorazioni africane.
Quelle ufficiali del Nilo Bianco si trovano qui, all’estremità del Lago Vittoria, dove un verdissimo parco naturale fa da cornice alle risorgive che alimentano un corso d’acqua già imponente.
In realtà la situazione è più complessa: del Nilo persino oggi non si sa tutto, nemmeno se sia il fiume più lungo del mondo rispetto al Rio delle Amazzoni. In un caso come nell’altro il problema è capire dove nascono esattamente. Intanto di fiumi Nilo ce ne sono due e solo a Karthum, in Sudan, diventano uno. Il Nilo azzurro, infatti, nasce convenzionalmente dal Lago Tana in Etiopia. Come il Nilo Bianco, però, le vere sorgenti sono a monte dei laghi da cui escono tanto spettacolarmente. Gish Abbai, a 2744 metri di altezza, per il Nilo Azzurro che nel primo tratto si chiama Lesser Abbai e, forse, l’altopiano del Burundi per il Nilo Bianco, in un dedalo di affluenti e confluenti che formano il Kagera, immissario del lago Vittoria.
Una rete complessa, che forma un bacino idrografico di 3.254.555 kmq diviso fra 11 paesi: Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Ruanda, Sudan, Sud Sudan, Tanzania e Uganda. Nazioni povere e molto dipendenti dall’agricoltura che fanno sempre più affidamento sulle sue acque in una situazione resa drammatica anche dalla siccità cronica dovuta al riscaldamento climatico, che dal 2000 colpisce duramente tutta l’Africa orientale.
Dalla fertilità dell’Uganda allo sfruttamento massiccio dell’Egitto, passando per i deserti sudanesi, dove sopravvive solo sulle rive una piccola striscia di verde, è visibile a occhio la disparità nello sfruttamento delle risorse del grande fiume, frutto anche della pesante eredità coloniale.
I primi tentativi di regolare i rapporti tra confinanti risalgono infatti alla fine dell’Ottocento quando la gestione delle acque era condizionata dagli interessi dei Paesi europei, e in particolare della Gran Bretagna, che miravano ad accontentare le richieste egiziane in cambio del controllo di Suez. Non a caso, nel 1929, sotto l’egida della Gran Bretagna, viene stipulato un accordo che attribuisce all’Egitto 48 miliardi mc/anno contro i 4 miliardi del Sudan, sotto amministrazione anglo-egiziana, che si impegna anche a non progettare opere idriche sul Nilo e sui suoi affluenti che possano diminuirne la portata.
Ma se con l’indipendenza del Sudan l’accordo nel 1959 viene rinegoziato in modo meno penalizzante (55 mld di mc/anno all’Egitto e 18,5 di mld mc/anno al Sudan), sono andate crescendo le proteste dei paesi esclusi, come l’Etiopia, che fornisce l’86 % del flusso totale annuo del fiume, e si sono moltiplicate le iniziative per trovare un accordo.
Non aveva risolto, però, anzi aveva riacceso la controversia il Nile Cooperative Framework Agreement siglato nel 2010 a Entebbe, in Uganda, dopo dieci anni di trattative, che prevedeva modifiche al trattato coloniale del 1929 che dava all’Egitto il diritto di veto. Non stupisce che fosse stato proprio l’Egitto poco dopo a sospendere la sua adesione all’iniziativa, vanificandola: il 90% delle esigenze idriche degli 80 milioni di egiziani è soddisfatto proprio con le acque del fiume.
Proprio questa dipendenza tuttavia, e l’aggravarsi della crisi idrica nel paese dove la disponibilità pro capite è scesa a circa 640 metri cubi l’anno, ha spinto nel 2017 l’Egitto di al-Sisi a farsi promotore di un nuovo summit a Entebbe, dando stavolta la propria disponibilità a trovare una soluzione comune per una migliore gestione delle risorse dell’immenso fiume.
Il bacino del Nilo, infatti, ha una portata di oltre 1.600 miliardi di metri cubi all’anno, di cui solo 84 miliardi restano nel letto del fiume, mentre altri miliardi vanno sprecati per la mancanza di adeguati investimenti nelle infrastrutture.
L’Egitto, tuttavia, pone come condizione irrinunciabile il mantenimento della quota d’acqua assegnatali nel 1959 e questo complica i negoziati. Inoltre riprende così quota la controversa costruzione del canale di Jonglei, destinato a raccogliere i miliardi di metri cubi che spariscono, per dispersione ed evaporazione, nella zona paludosa del Sudd, nel Sud Sudan.
Il progetto egiziano che risale agli Anni ’70 e che è stato realizzato solo parzialmente, prevede 360 km di canalizzazione del Nilo Bianco ma è da sempre osteggiato dalla popolazione. Nella palude del Sudd, infatti, vivono milioni di capi di bestiame delle tribù pastorali dei Dinka, dei Nuer e degli Shilluk, i tre maggiori gruppi etnici del paese.
Inoltre nell’immensa palude, uno dei più grandi ecosistemi di acqua dolce del mondo, trovano il loro habitat innumerevoli specie di insetti, uccelli, rettili e mammiferi selvatici.
E il canale rischierebbe di diventare un nuovo fronte, l’ennesimo, nella “guerra dell’acqua” che secondo molti analisti, rischia di scatenarsi tra i paesi del bacino del Nilo.
Fonte: lastampa.it – CARLA RESCHIA
Si chiama RestArt e combatte lo stress, la stanchezza, il jet-lag e, in qualche caso, anche la paura di volare. Si tratta di una Dry Float Spa che permette di replicare l’esperienza delle vasche di deprivazione sensoriale senza però la necessità di bagnarsi o di indossare un costume. A metterla, da oggi, a disposizione del grande pubblico, è l’aeroporto di Roma Fiumicino Leonardo Da Vinci gestito da Adr che, grazie alla collaborazione della società creatrice, l’italiana Starpool, ha realizzato due postazioni nell’area transiti principale dello scalo per permettere ai passeggeri di provare l’esperienza.
Il sistema permette di provare questa esperienza di relax, flottando sopra 400 litri di acqua calda, semplicemente sdraiandosi all’interno delle cabine e abbinando questa pausa rigenerante con percorsi di mindfulness o a playlist musicali. L’esperienza può durare 10 minuti (RestArt Refresh), 20 (RestArt Restore) o 30 minuti (RestArt Regenerate) e, oltre all’effetto anti stress, ha anche dei benefici fisici andando a combattere le conseguenze classiche dei lunghi voli, ossia dolori muscolari e articolari, disidratazione dei tessuti e gonfiori a piedi e gambe.
Fonte: ilmessaggero.it
È pura esperienza sensoriale!
Conosciuto già nel regno di Moulay Ismail nel XVII secolo, il tè era considerato un bene di lusso presente soprattutto nell’alta società. Solo nella seconda metà del XIX secolo, grazie alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, gli inglesi introdussero le foglioline cinesi nei mercati dei porti di Tangeri ed Essaouria. La bevanda si diffuse rapidamente tra tutti i livelli sociali con diverse interpretazioni nella preparazione a seconda delle regioni del Paese.
Il tè prevalentemente utilizzato è quello verde Gunpowder, con le piccole foglie arrotolate, a cui si aggiungono zucchero, menta fresca e, alcune volte, altre erbe aromatiche, seguendo un procedimento particolare. La menta migliore è prodotta nell’area intorno a Meknès e ha uno straordinario profumo, oltre ad un colore brillante, utile per attenuare il sapore amarognolo dell’infuso senza modificane il gusto.
Il tè alla menta non è soltanto una bevanda digestiva e rinfrescante, ma è un inno all’ospitalità e alla tradizione marocchina.
Seguendo un rituale antico, il tè viene preparato dal capofamiglia di fronte agli ospiti che, seduti su cuscini a terra intorno ad un tavolo rotondo, assistono all’importante atto di condivisione in rispettoso silenzio, quasi ipnotizzati e inebriati dall’intenso profumo. Si susseguono atti cadenzati e ripetitivi e, quando si ritiene sia pronto, il prezioso infuso viene versato in bicchieri di vetro decorati, posti su un vassoio in argento intarsiato, con un gesto di grande abilità dall’alto verso il basso ad una distanza di una trentina di centimetri.
É d’uso bere tre bicchieri di seguito, in quanto il tè, rimanendo in infusione nella teiera, restituisce retrogusti di diversa intensità.
In Marocco c’è un detto ricorrente e molto significativo:
“Il primo bicchiere è dolce come la vita.
Il secondo è forte come l’amore.
Il terzo è amaro come la morte.”
È pura esperienza sensoriale!
Conosciuto già nel regno di Moulay Ismail nel XVII secolo, il tè era considerato un bene di lusso presente soprattutto nell’alta società. Solo nella seconda metà del XIX secolo, grazie alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, gli inglesi introdussero le foglioline cinesi nei mercati dei porti di Tangeri ed Essaouria. La bevanda si diffuse rapidamente tra tutti i livelli sociali con diverse interpretazioni nella preparazione a seconda delle regioni del Paese.
Il tè prevalentemente utilizzato è quello verde Gunpowder, con le piccole foglie arrotolate, a cui si aggiungono zucchero, menta fresca e, alcune volte, altre erbe aromatiche, seguendo un procedimento particolare. La menta migliore è prodotta nell’area intorno a Meknès e ha uno straordinario profumo, oltre ad un colore brillante, utile per attenuare il sapore amarognolo dell’infuso senza modificane il gusto.
Il tè alla menta non è soltanto una bevanda digestiva e rinfrescante, ma è un inno all’ospitalità e alla tradizione marocchina. Seguendo un rituale antico, il tè viene preparato dal capofamiglia di fronte agli ospiti che, seduti su cuscini a terra intorno ad un tavolo rotondo, assistono all’importante atto di condivisione in rispettoso silenzio, quasi ipnotizzati e inebriati dall’intenso profumo. Si susseguono atti cadenzati e ripetitivi e, quando si ritiene sia pronto, il prezioso infuso viene versato in bicchieri di vetro decorati, posti su un vassoio in argento intarsiato, con un gesto di grande abilità dall’alto verso il basso ad una distanza di una trentina di centimetri.
É d’uso bere tre bicchieri di seguito, in quanto il tè, rimanendo in infusione nella teiera, restituisce retrogusti di diversa intensità.
In Marocco c’è un detto ricorrente e molto significativo:
“Il primo bicchiere è dolce come la vita.
Il secondo è forte come l’amore.
Il terzo è amaro come la morte.”
Cuba ha legalizzato le connessioni internet private
Dalla scorsa settimana si possono allestire reti Wi-Fi domestiche, ed è una svolta per le strutture turistiche
Dalla scorsa settimana a Cuba è legale allestire delle reti internet via cavo e Wi-Fi private nelle case e negli esercizi commerciali, e si possono importare router e altre attrezzature necessarie per dotarsi di una connessione a internet. È una decisione molto importante per uno dei paesi meno collegati a internet dell’emisfero occidentale, che negli ultimi anni ha approvato alcune timide riforme per allargare il numero di connessioni nel Paese.
Finora l’accesso a internet a Cuba era ufficialmente possibile attraverso i circa 1.400 hotspot in giro per il Paese, e da dicembre anche attraverso una rete mobile 3G nazionale. Nel Paese ci sono circa 80.000 case con un accesso a internet, perché parte di programmi sperimentali dell’operatore telefonico nazionale o perché dotate di sistemi clandestini, i cui possessori avranno ora due mesi per renderli legali. L’accesso a internet dall’isola, però, continuerà a essere gestito dall’unico operatore, Etecsa, di proprietà statale.
Da tempo il governo di Cuba, uno degli ultimi regimi comunisti nel mondo, guidato dall’anno scorso dal presidente Miguel Díaz-Canel, sta cercando il modo di introdurre gradualmente internet nel Paese: da una parte lo considera un elemento fondamentale per modernizzare il Paese e per attirare turisti sull’isola; dall’altro, teme che la sua diffusione possa aumentare il dissenso interno, come ha spiegato al New York Times William LeoGrande, esperto di America Latina dell’American University di Washington.
Gli hotspot che si sono moltiplicati negli ultimi anni hanno permesso a moltissimi cubani di accedere a internet, anche se rimangono molto costosi: da quando furono introdotti nel 2015 i prezzi sono calati, ma un’ora di connessione continua a costare più di un dollaro, in un paese in cui lo stipendio medio non supera i 50 dollari. Ciononostante gli hotspot sono sempre molto affollati. Anche le connessioni domestiche appena diventate legali avranno costi simili, che dovrebbero scendere col tempo.
A trarre beneficio dalle nuove regole saranno soprattutto gli alberghi, i bed and breakfast e le varie strutture di accoglienza per i turisti gestite direttamente dai cubani, compresi i bar e i ristoranti, che finora – salvo pochi casi e molto costosi – non potevano offrire una connessione a internet (perlomeno, non legale), un servizio ormai comune in quasi tutto il mondo.
Fonte: ilpost.it