DIE SISI-STRASSE: UNA STRAORDINARIA MOSTRA ITINERANTE INTERNAZIONALE DEDICATA AD UNA DONNA TRA LE PIÙ AMATE DI TUTTI I TEMPI
IL CASTELLO DI HOF E LA RESIDENZA DI CACCIA DI NIEDERWEIDEN
Il primo luogo dove si inaugura la mostra itinerante internazionale dedicata all’Imperatrice Sissi è il Castello di Hof e la Residenza di caccia di Niederweiden, che fa parte del sito del Castello di Hof, non lontano da Vienna, che ospita già una esposizione permanente dedicata a Sissi.
La mostra itinerante si divide in due esposizioni parallele. Una intitolata “Sissi – Donna e Imperatrice” e l‘altra “Sissi – Il Figlio Rodolfo“. Entrambe sono state aperte al pubblico il 15 maggio 2020. La mostra, nel suo complesso, sarà aperta fino al 20 novembre 2020 e continuerà dopo la pausa invernale da marzo a ottobre 2021. Orari di apertura: dalle ore 10 alle ore 18 tutti i giorni, con visite guidate speciali per le due sezioni della mostra.
Proprio dal Castello di Hof e dalla sua Residenza di caccia di Niederweiden parte questa importante mostra culturale internazionale itinerante, che sarà quindi presentata presso importanti città e siti culturali in tutto il mondo.
Sissi: Donna e Imperatrice. Residenza di caccia di Niederweiden – Castello di Hof.
Sissi ha vissuto una vita eclettica unica nel suo genere, diventando un simbolo storico positivo per le donne di tutto il mondo. Una donna, Sissi, che ha saputo essere Imperatrice, ma anche difendere con coraggio una vita privata indipendente, che spesso ha privilegiato rispetto alla sua vita ufficiale come Imperatrice. Una esperienza che ancora accende la curiosità degli storici e della gente comune, che vede in lei un esempio di modernità e di emancipazione femminile.
Questo è il motivo per cui dell’Imperatrice d’Austria è stato scritto e pubblicato molto e si continua a farlo. Più si viene a sapere di Sissi più accresce il suo fascino. La vita di Sissi con il suo stile di vita stravagante e il suo carattere imprevedibile continua ad incantare.
Nella esposizione sono presentati dieci settori tematici ed esposti oggetti molto interessanti, presi dalla collezione dell’Imperatrice Elisabetta. Questa mostra espone non soltanto oggetti finora mai mostrati, ma presenta anche le nuove acquisizioni della ricerca storica su questo avvincente personaggio e i rapporti personali con la sua famiglia.
Sissi: Il Figlio Rodolfo – Castello di Hof
Nella parte nord del Castello di Hof si tiene la mostra intitolata “Il Figlio Rodolfo”, principe ereditario, figlio unico dell’Imperatrice Elisabetta.
Distribuita in sei stanze, presso il Castello di Hof, la mostra offre al visitatore una visione di Rodolfo attraverso una presentazione concentrata sulla vita privata, a partire dalle esperienze personali decisive nella sua infanzia, la sua opinione politica fino al suo profondo interesse per le scienze.
La mostra evidenzia il rapporto di Rodolfo con Sissi, anche perché la madre e il figlio si assomigliavano in molti aspetti, come il carattere e il modo di concepire la vita.
Un ulteriore suggerimento, a latere della mostra, è la visita al famoso museo di Sissi nel palazzo imperiale Hofburg di Vienna. Durante gli ultimi due decenni, il Castello Schönbrunn Kultur und Betriegsbesellschaft m.b.H. ha potuto continuamente allargare la sua collezione, che rappresenta le più importanti testimonianze del museo di Sissi, aperto nella Hofburg nel 2004. Il museo di Sissi può vantare una grande visibilità a livello internazionale ed è in grado di mostrare oggetti unici di Sissi, come parte integrante e fondante della propria collezione. Il museo inoltre rappresenta una parte importante del percorso culturale in Austria de “La Strada di Sissi“.
Fonte: R. C. Marketing & Communication – Regio Augsburg Tourismus GmbH
Ben tre città, Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera, si contendono il ruolo di culla del flamenco in una regione, quella andalusa, che è il luogo di nascita di questo ballo
L’arte del flamenco, risalente al XV secolo, è una cultura a sé, un vero e proprio stile di vita nonché miscela di musica, canto e danza, intrisa di leggende gitane, folklore spagnolo, storie tramandate oralmente e un’affascinante aria di mistero. Ma la più viscerale forma d’arte spagnola è nata qui, nella capitale dell’Andalusia, ancora oggi il luogo perfetto dove percepire la forza emotiva e lo spirito intangibile di questo ballo.
Se non avete il tempo di visitare tutte le tre città, scegliete Siviglia, l’allegra e magnifica capitale dell’Andalusia, dove non solo potrete assistere a esibizioni di alto livello, ma anche visitare un museo del flamenco, partecipare a un festival e seguire un corso intensivo in una delle tre discipline principali, canto, danza e chitarra. Siviglia ha mantenuto la sua identità a dispetto delle interferenze moderne: qui vi attendono la più bella cattedrale gotica al mondo, la migliore festa di primavera in Spagna e una collezione vastissima di arte barocca.
Il flamenco ha radici profonde in questa città e la sua musica, che è nata nel quartiere gitano di Triana e si è poi sviluppata e diffusa all’esterno, combina elementi ebraici, mori, nomadici e folkloristici. A metà del XIX secolo, Siviglia ebbe un ruolo chiave nell’introdurre il flamenco a un pubblico più vasto, e lo fece attraverso i suoi café cantantes, sorta di balere in cui si serviva da bere e il pubblico assisteva a esibizioni regolari di flamenco.
Nonostante la corsa alla modernizzazione, il flamenco resiste. Fondato sulla spontaneità e l’improvvisazione, esercita il suo fascino tenace nelle rappresentazioni dal vivo, effimere e imprevedibili. L’artista cerca di ispirare il duende, uno spirito intangibile che si percepisce al culmine emotivo di una performance perfetta. È una forza preziosa ed elusiva di cui, però, Siviglia è colma.
Casa de la Guitarra
Negli ultimi cinque anni a Siviglia è avvenuto il rinascimento del flamenco, capeggiato da piccoli e chiassosi club come la Casa de la Guitarra in cui lo spazio è limitato a 60 posti e la musica è esplosiva.
Il proprietario è l’ex chitarrista di flamenco José Luis Postigo, che ha appeso alle pareti la sua pregevole collezione di chitarre. Il club, che non serve cibo né bevande, si caratterizza per un arredo molto essenziale, affinché sia il palco stesso a catturare la completa attenzione del pubblico.
Come in un’antica juerga (festa) gitana, il pubblico è letteralmente stipato nella piccola Casa de la Guitarra. In prima fila, sarete così vicini al palco da sentire il viso sfiorato dal vestito della ballerina e le orecchie graffiate dalla voce del cantante. Questo è il flamenco: un’esperienza sensoriale completa che vi assorbe a poco a poco e, se siete fortunati, vi regala la visita dell’elusivo spirito del flamenco, il duende.
Museo del Baile Flamenco
In cinque minuti a piedi dalla Casa de la Guitarra, si raggiunge questo importante archivio-memoriale del flamenco, distribuito sui tre piani di un palazzo restaurato del VIII secolo. La struttura è molto di più che un museo, si tratta di fatto di un centro culturale, che propone corsi di flamenco ed esibizioni serali molto acclamate, eseguite nel patio disegnato appositamente per lo scopo.
Il progetto ha avuto inizio nel 2008 da un’idea della ballerina di flamenco Cristina Hoyos. Con l’uso di moderne tecnologie, il museo vi accompagnerà in un viaggio interattivo attraverso la storia del flamenco, con proiezioni video, schizzi e dipinti originali, foto dei grandi artisti del passato e del presente e una nutrita collezione di vestiti e scialli. Per una serata di flamenco, arrivate alle 18, concedetevi un’ora per visitare il museo e poi rimanete per l’elettrizzante concerto delle 19.
Casa de la Memoria
Non si tratta né di uno show serale ben confezionato, né di un peña (club privato). Piuttosto, questa interessante istituzione culturale, alloggiata nei locali delle vecchie stalle dello storico Palacio de la Lebrija, condivide l’atmosfera mista di un teatro di solo flamenco e delle scatenate feste gitane del passato.
Lo stile che la contraddistingue è equilibrato tra professionalità e passione, offrendo quelli che sono, senza dubbio, tra i migliori show notturni di Siviglia. La Casa della Memoria, 10 minuti a piedi attraverso il cuore della città dal Museo del Baile Flamenco, è sempre molto affollata e lo spazio è limitato a 100 posti. Prenotate il biglietto almeno un giorno in anticipo.
Casa Anselma
L’Anselma è un locale vecchio stile nel quartiere Triana addobbato come un bar andaluso, dove un ampio pubblico locale assiste (e talora partecipa) a scatenate jam session ravvivate da danze spontanee. Sarebbe un po’ eccessivo descrivere la musica qui come ‘puro’ flamenco, ma basti dire che ci sono chitarre, voci gorgheggianti e un trambusto di pugni che ritmano sui tavoli.
Raggiungibile a piedi in 20 minuti da Casa de la Memoria, attraversando il ponte Isabela II, l’Anselma non è molto conosciuta dai turisti, probabilmente perché non è facile da trovare. Ricordate: non c’è un’insegna fuori, è sempre pienissimo e non apre mai prima di mezzanotte. Anche se non occorre parlare spagnolo fluentemente, conoscere alcune frasi chiave, come ‘dos cervezas, por favor’ (‘due birre, per favore’), vi faciliterà.
È Anselma, una formidabile ex ballerina, a supervisionare le chiassose esibizioni spontanee. Sgomitate pure tra la folla ma, a meno che non siate una celebrità del flamenco, faticherete a trovare un posto a sedere. L’entrata è gratuita, ma la consumazione è obbligatoria.
Lo show continua finché i musicisti sono esausti. Tutto è improvvisazione e le danze non sono coreografate, bensì improvvisate da spettatori più o meno alticci che si divertono. Un buon motivo per scovare Anselma è che non troverete nulla di simile a Siviglia… o in Spagna… o da qualsiasi altra parte del mondo!
Se volete esplorare il resto del quartiere, a Triana troverete molti altri tapas bar vecchio stile, chiese e musei che raccontano gli orrori dell’Inquisizione spagnola.
Palacio Andaluz
I puristi del flamenco considerano Palacio Andaluz una semplice attrazione per turisti. Tuttavia, anche se la gran parte del pubblico è lì solo per registrare tutto su uno smartphone, queste critiche non sono del tutto giustificate. La popolarità del Palacio non scredita il talento degli artisti che vi si esibiscono, la maggior parte dei quali sono veri maestri.
In un vecchio magazzino al centro del quartiere Macarena, a poca distanza in taxi verso nord-est da Triana, il Palacio è uno dei più grandi locali di flamenco di Siviglia, un teatro da 500 posti che ospita show serali dalle coreografie perfette con fino a 20 cantanti e ballerini.
Non troverete qui un ambiente raccolto, quanto piuttosto esibizioni professionali, anche se un po’ affettate, un vero spettacolo più che un’esperienza interattiva. In un autentico ‘greatest hits’ del flamenco ascolterete tristi soleares, frenetiche bulerias e vivaci alegrias, ma di certo non sentirete gli esperti aficionados che urlano ‘óle’ dagli spalti.
Fundación Cristina Heeren de Arte
Il flamenco è un’arte complessa e riuscire a padroneggiarla non è possibile in un weekend. Tuttavia, gli aspiranti ‘flamencologi’ possono cimentarsi alla rinomata scuola Cristina Heeren nel quartiere di Triana.
Fondata da un’americana nel 1996, l’Heeren ha più di 20 anni di esperienza nell’insegnamento di tutte e tre le arti del flamenco, danza, canto e chitarra. I corsi intensivi di quattro settimane a luglio sono particolarmente rinomati.
Fonte: lonelyplanetitalia.it
I lavori serviranno per scoprire il cortile anteriore del Tesoro, la facciata dell’edificio più iconico della “città rosa”
Petra sarà oggetto di nuovi scavi archeologici. I lavori serviranno per scoprire il cortile anteriore del Tesoro, la facciata dell’edificio più iconico della “città rosa”. della Giordania dichiarata Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1985.
Lo scavo contribuirà a scoprire gli elementi architettonici della parte inferiore del Tesoro, oltre a completare il lavoro archeologico del 2003, che ha portato alla luce alcune tombe e facciate antistanti il Tesoro. Inoltre, lo scavo dovrebbe estendersi dal cantiere del Tesoro fino alla fine del Siq verso l’Anfiteatro nabateo.
Questo progetto mira a identificare l’effettivo utilizzo delle strutture archeologiche vicino al Tesoro e a scoprire il resto del sistema idrico e dei canali su cui l’antica città faceva affidamento in passato per drenare l’acqua piovana.
L’Autorità regionale per lo sviluppo e il turismo di Petra ha annunciato l’inizio dei nuovi scavi, che saranno finanziati dall’Autorità stessa in collaborazione con il Dipartimento delle Antichità, ha dichiarato Chief Commissioner del PDTRA Suleiman Farajat. Un team archeologico accademico dell’Università Hussein Bin Talal prenderà parte al progetto.
Secondo Farajat, il progetto ha anche lo scopo di aiutare a spiegare le ragioni della costruzione della facciata del Tesoro, in quanto vi sono più teorie sulla sua storia.
Il lavoro sarà anche volto a eliminare i detriti delle alluvioni accumulati negli ultimi anni, che coprono parte del corridoio e l’area vicino al Tesoro.
Gli scavi saranno accompagnati da un piano d’azione designato per riorganizzare i servizi forniti dal sito, i segnali di orientamento e le strutture pubbliche in conformità con i risultati del progetto.
Ancora oggi, infatti, Petra ha ancora molto da svelare. Solo pochi anni fa un altro scavo aveva riportato alla luce una clamorosa scoperta archeologica, quella dei magnifici giardini da Mille e una Notte, con fontane e una grandissima piscina, che 2mila anni fa rendevano questa città nel deserto una vera e propria oasi. La Capitale dei Nabatei, infatti, era un vero paradiso in cui, anche in mezzo al deserto, era possibile coltivare piante e alberi, grazie a un sofisticato sistema di irrigazione e di stoccaggio dell’acqua. Una realtà rimasta ignorata per secoli fino alla scoperta.
Fonte: siviaggia.it
Ad Al Haouz i resti di una magnifica fortezza medievale che fu la capitale di un vasto impero
In un piccolo villaggio, nel cuore delle montagne dell’Alto Atlante, si trovano i resti della fortezza medievale di Almohad che un tempo era la capitale di un vasto impero che si estendeva dal Mali alla Tunisia e alla Spagna.
La città di Tin Mal fu fondata da Ibn Tumart, fondatore e mahdi (leader spirituale) degli Almohadi, intorno al 1124, e fu il centro culturale e religioso dell’impero fino alla distruzione della città da parte della dinastia rivale Merinide negli anni 1270. Tutto ciò che fu risparmiato, a parte qualche frammento di muro, fu la monumentale moschea costruita nel 1156 in onore di Ibn Tumart, secondo la dottrina ufficiale di Almohad.
La moschea fu abbandonata per molti anni, ma restaurata negli anni ’90. Si erge prominente su una collina che domina il villaggio rurale che Tin Mal (chiamato anche Tinmel) è diventato oggi. A differenza della maggior parte delle moschee di Almohad, i non musulmani sono ammessi all’interno, anche se potrebbe essere necessario telefonare al guardiano per far aprire la porta.
L’interno è straordinariamente ben conservato, con un elaborato mihrab (la nicchia nel muro che si affaccia sulla Mecca, che indica la direzione della preghiera) e colonne a volta. La moschea è unica ad avere il suo minareto sopra il mihrab piuttosto che in una torre separata, dandole un aspetto simile a un castello dall’esterno.
Per visitare Tin Mal si percorre una delle strade più mozzafiato del Marocco, il Tizi n’Test nell’Alto Atlante. Tin Mal è a circa 100 km da Marrakech, ma il luogo non potrebbe essere più diverso. La Moschea si trova subito dopo il cartello per Tin Mal, e per accedervi si deve contattare Youssef, la guardia ufficiale. I pilastri in mattoni e pietra si innalzano per creare bellissimi archi e lo stucco rimanente farà intravedere come deve essere apparso nei suoi tempi di gloria. Non c’è un biglietto di ingresso per visitare la Moschea, ma le donazioni sono benvenute.
Sebbene bella, la strada che attraversa l’Alto Atlante è difficile e si consiglia un autista.
Fonte: atlasobscura.com
In 15 anni la North Pole Marathon è stata annullata una sola volta per il meteo avverso. Un fatto che parla da sé considerando che si svolge in condizioni di freddo tali per cui ogni altra maratona nel resto del pianeta verrebbe cancellata
Fu questo il motivo delle mie notti insonni la settimana prima della gara. Detesto il freddo, tanto che la sola idea di correre sotto i 15° C mi innervosisce. Ma una corsa nell’Artico sarebbe stata un’esperienza del tutto nuova per la mia carriera di runner. Era il 2014 e stavo per compiere 40 anni: quale occasione migliore per tentare un’impresa estrema.
Per quanto pericoloso, il Polo Nord è una meraviglia sovrannaturale. Pur essendo intimamente consapevole che faresti meglio a trovarti altrove, ne sei rapito, ti incute rispetto, un po’ come un deserto remoto. È una delle maratone che mi sono rimaste nel cuore (malgrado abbia registrato uno dei miei tempi peggiori) e il Polo Nord è certamente uno dei luoghi più straordinari che abbia mai visitato. Correre, tra l’altro, è stata solo una piccola parte dell’esperienza.
Durante il volo per la Norvegia cominciai a capire perché l’iscrizione a questa maratona costasse la bellezza di 16.000 euro. In qualità di atleta sponsorizzato avevo la fortuna di non dover affrontare la spesa e mi chiedevo chi mai fosse in grado di permetterselo. In realtà si trattava dei soliti noti: consulenti finanziari, broker, runner che corrono a scopo di raccolta fondi e atleti professionisti come me, tutti provenienti da una decina di Paesi diversi. Mi sorprese il desiderio di avventura condiviso. Tutti nutrivano una passione per le esperienze uniche, come questa, e per me fu incoraggiante. Non c’è runner che dopo aver corso una maratona prima o poi non desideri aggiungere un’impresa speciale al proprio curriculum.
Arrivato a Oslo presi un volo per Svalbard, l’insediamento abitato più a nord del pianeta. Qui runner e unità di supporto attendono una finestra di bel tempo per potersi imbarcare su un vecchio aereo russo che li trasferisce 650 miglia ancora più a nord, al Polo.
Il paesaggio visto dall’alto è di un bianco abbacinante. Qui si trova Camp Barneo, una base temporanea con pista di atterraggio che ogni anno viene scavata nel ghiaccio da paracadutisti russi appositamente per la corsa. Giunto a destinazione vidi quale unico segno della presenza umana un gruppetto di tende blu contro un’interminabile distesa di vuoto. Un panorama severo dove si ha la sensazione di trovarsi al Polo Nord solo nel momento in cui si mette piede fuori dall’aereo e ci si trova avvolti nel freddo.
A poca distanza dalla pista sono dislocati i dormitori, la mensa e i servizi igienici, che in questo contesto non sono che un grande secchio foderato da un pesante sacco della spazzatura, chiuso da un sedile di polistirolo (qualsiasi altro materiale rischierebbe di congelare la pelle). Trovai rapidamente la mia branda, sistemai il bagaglio e feci conoscenza con il mio ‘compagno di stanza’, Kolja, un tedesco cacciatore di sponsor per la Formula Uno. Scambiammo due chiacchiere, ma intanto non facevo altro che chiedermi se sarei mai riuscito a correre in queste condizioni.
Il percorso della maratona si dipana su uno spesso strato di ghiaccio e neve crostosa che si sposta sotto i piedi, a temperature che oscillano tra -25° C e -41° C, e prevede cinque giri di un lungo anello per complessivi 42,195 km. Può sembrare assurdo dover ripetere lo stesso giro più volte, ma il motivo è presto detto. Da queste parti aprire una nuova pista è un’impresa ardua e inoltre le zone del campo già spalate impattano meno sulle gambe. Ma soprattutto, in caso di necessità, un percorso di questo tipo mantiene i partecipanti a distanza ravvicinata dal campo, un dettaglio rassicurante. Anche trovarsi molto più avanti, o più indietro, rispetto al gruppo degli altri runner può diventare snervante. Al Polo Nord, eventualità come perdere un guanto o bucare il ghiaccio con un piede possono avere conseguenze pesanti, se non addirittura letali.
La maratona prese il via senza troppo clamore e senza spettatori, ad eccezione delle guardie armate russe incaricate di tenere lontani gli orsi polari; il silenzio era amplificato dall’effetto insonorizzante del ghiaccio. Mi sintonizzai sui suoni dell’Artico: la neve che scricchiolava sotto i piedi, la superficie solida che cedeva leggermente sotto il peso dei miei passi.
Il secondo giro si corre sui solchi creati al primo passaggio. Il mio obiettivo era stabilire un record e cercavo di mantenermi al comando. Spesso per superare gli altri ero costretto a uscire dai solchi, avventurandomi su tratti di neve alta fino alle ginocchia.
Giro dopo giro il tracciato si fece sempre più battuto e i chilometri passarono veloci: senza rendermene conto avevo già percorso 18 miglia (30 km). Una volta superata la sensazione di freddo (credetemi, succede) comincia il bello. Con i due terzi della gara nelle gambe cominciai a sentire il bisogno di altro carburante. Mi fermai per assumere un integratore in gel, ma avevo addosso talmente tanti strati che prima di riuscire a portarmelo alla bocca passarono alcuni minuti preziosi. Cercai di allentare la maschera, ma non si mosse: mi si era congelata addosso per via del sudore e del fiato condensato. Le ciglia congelate mi annebbiavano la vista e sollevare anche solo il più piccolo strato dalla pelle mi provocava dolore. Non avevo altra scelta se non infilarmi per qualche minuto dentro un ristoro per riscaldarmi.
Come rimisi piede sulla neve fui accecato dal bagliore, ma la vista si normalizzò nei giri finali. Sebbene fossi anestetizzato, sorrisi nel momento in cui imboccai l’ultimo terzo della gara, arrancando lungo i solchi ormai perfettamente tracciati.
Con un tempo ufficiale poco oltre le quattro ore vinsi la maratona, la più lenta della mia carriera. Il secondo arrivò un’ora dopo di me. Comprensibilmente non esiste un tempo limite per una gara come questa: se sei arrivato fin qui (e hai pagato per farlo), ti lasciano correre a oltranza, pur entro certi limiti. Il mio tempo fu comunque un record, ma dell’Artico mi rimase soprattutto il ricordo di un paesaggio che non dimenticherò. La maratona del Polo Nord ha cambiato anche il mio atteggiamento verso il freddo: nemmeno tre anni più tardi ho partecipato all’Antarctica Marathon.
Fonte: lonelyplanetitalia.it- Michael Wardian
In 15 anni la North Pole Marathon è stata annullata una sola volta per il meteo avverso. Un fatto che parla da sé considerando che si svolge in condizioni di freddo tali per cui ogni altra maratona nel resto del pianeta verrebbe cancellata
Fu questo il motivo delle mie notti insonni la settimana prima della gara. Detesto il freddo, tanto che la sola idea di correre sotto i 15° C mi innervosisce. Ma una corsa nell’Artico sarebbe stata un’esperienza del tutto nuova per la mia carriera di runner. Era il 2014 e stavo per compiere 40 anni: quale occasione migliore per tentare un’impresa estrema.
Per quanto pericoloso, il Polo Nord è una meraviglia sovrannaturale. Pur essendo intimamente consapevole che faresti meglio a trovarti altrove, ne sei rapito, ti incute rispetto, un po’ come un deserto remoto. È una delle maratone che mi sono rimaste nel cuore (malgrado abbia registrato uno dei miei tempi peggiori) e il Polo Nord è certamente uno dei luoghi più straordinari che abbia mai visitato. Correre, tra l’altro, è stata solo una piccola parte dell’esperienza.
Durante il volo per la Norvegia cominciai a capire perché l’iscrizione a questa maratona costasse la bellezza di 16.000 euro. In qualità di atleta sponsorizzato avevo la fortuna di non dover affrontare la spesa e mi chiedevo chi mai fosse in grado di permetterselo. In realtà si trattava dei soliti noti: consulenti finanziari, broker, runner che corrono a scopo di raccolta fondi e atleti professionisti come me, tutti provenienti da una decina di Paesi diversi. Mi sorprese il desiderio di avventura condiviso. Tutti nutrivano una passione per le esperienze uniche, come questa, e per me fu incoraggiante. Non c’è runner che dopo aver corso una maratona prima o poi non desideri aggiungere un’impresa speciale al proprio curriculum.
Arrivato a Oslo presi un volo per Svalbard, l’insediamento abitato più a nord del pianeta. Qui runner e unità di supporto attendono una finestra di bel tempo per potersi imbarcare su un vecchio aereo russo che li trasferisce 650 miglia ancora più a nord, al Polo.
Il paesaggio visto dall’alto è di un bianco abbacinante. Qui si trova Camp Barneo, una base temporanea con pista di atterraggio che ogni anno viene scavata nel ghiaccio da paracadutisti russi appositamente per la corsa. Giunto a destinazione vidi quale unico segno della presenza umana un gruppetto di tende blu contro un’interminabile distesa di vuoto. Un panorama severo dove si ha la sensazione di trovarsi al Polo Nord solo nel momento in cui si mette piede fuori dall’aereo e ci si trova avvolti nel freddo.
A poca distanza dalla pista sono dislocati i dormitori, la mensa e i servizi igienici, che in questo contesto non sono che un grande secchio foderato da un pesante sacco della spazzatura, chiuso da un sedile di polistirolo (qualsiasi altro materiale rischierebbe di congelare la pelle). Trovai rapidamente la mia branda, sistemai il bagaglio e feci conoscenza con il mio ‘compagno di stanza’, Kolja, un tedesco cacciatore di sponsor per la Formula Uno. Scambiammo due chiacchiere, ma intanto non facevo altro che chiedermi se sarei mai riuscito a correre in queste condizioni.
Il percorso della maratona si dipana su uno spesso strato di ghiaccio e neve crostosa che si sposta sotto i piedi, a temperature che oscillano tra -25° C e -41° C, e prevede cinque giri di un lungo anello per complessivi 42,195 km. Può sembrare assurdo dover ripetere lo stesso giro più volte, ma il motivo è presto detto. Da queste parti aprire una nuova pista è un’impresa ardua e inoltre le zone del campo già spalate impattano meno sulle gambe. Ma soprattutto, in caso di necessità, un percorso di questo tipo mantiene i partecipanti a distanza ravvicinata dal campo, un dettaglio rassicurante. Anche trovarsi molto più avanti, o più indietro, rispetto al gruppo degli altri runner può diventare snervante. Al Polo Nord, eventualità come perdere un guanto o bucare il ghiaccio con un piede possono avere conseguenze pesanti, se non addirittura letali.
La maratona prese il via senza troppo clamore e senza spettatori, ad eccezione delle guardie armate russe incaricate di tenere lontani gli orsi polari; il silenzio era amplificato dall’effetto insonorizzante del ghiaccio. Mi sintonizzai sui suoni dell’Artico: la neve che scricchiolava sotto i piedi, la superficie solida che cedeva leggermente sotto il peso dei miei passi.
Il secondo giro si corre sui solchi creati al primo passaggio. Il mio obiettivo era stabilire un record e cercavo di mantenermi al comando. Spesso per superare gli altri ero costretto a uscire dai solchi, avventurandomi su tratti di neve alta fino alle ginocchia.
Giro dopo giro il tracciato si fece sempre più battuto e i chilometri passarono veloci: senza rendermene conto avevo già percorso 18 miglia (30 km). Una volta superata la sensazione di freddo (credetemi, succede) comincia il bello. Con i due terzi della gara nelle gambe cominciai a sentire il bisogno di altro carburante. Mi fermai per assumere un integratore in gel, ma avevo addosso talmente tanti strati che prima di riuscire a portarmelo alla bocca passarono alcuni minuti preziosi. Cercai di allentare la maschera, ma non si mosse: mi si era congelata addosso per via del sudore e del fiato condensato. Le ciglia congelate mi annebbiavano la vista e sollevare anche solo il più piccolo strato dalla pelle mi provocava dolore. Non avevo altra scelta se non infilarmi per qualche minuto dentro un ristoro per riscaldarmi.
Come rimisi piede sulla neve fui accecato dal bagliore, ma la vista si normalizzò nei giri finali. Sebbene fossi anestetizzato, sorrisi nel momento in cui imboccai l’ultimo terzo della gara, arrancando lungo i solchi ormai perfettamente tracciati.
Con un tempo ufficiale poco oltre le quattro ore vinsi la maratona, la più lenta della mia carriera. Il secondo arrivò un’ora dopo di me. Comprensibilmente non esiste un tempo limite per una gara come questa: se sei arrivato fin qui (e hai pagato per farlo), ti lasciano correre a oltranza, pur entro certi limiti. Il mio tempo fu comunque un record, ma dell’Artico mi rimase soprattutto il ricordo di un paesaggio che non dimenticherò. La maratona del Polo Nord ha cambiato anche il mio atteggiamento verso il freddo: nemmeno tre anni più tardi ho partecipato all’Antarctica Marathon.
Fonte: lonelyplanetitalia.it- Michael Wardian
La Norvegia offre un incredibile ambiente naturale incontaminato, dai maestosi fiordi e le coste frastagliate ai ghiacciai e i pascoli verdi. E adesso una compagnia ha annunciato il lancio di una serie di rifugi per capitalizzare questo panorama mozzafiato: le birdbox, eleganti alloggi futuristici dotati di enormi vetrate per ammirare il paesaggio
Ideato da Livit, il “nido d’uccello per umani” ha un design minimalista che mette in risalto lo scenario che lo circonda. Questi rifugi dalle forme e i colori ispirati alle montagne norvegesi sono stati progettati per mimetizzarsi nella natura. Il designer di Birdbox e cofondatore di Livit è il designer norvegese Torstein Aa, famoso per “Vision of The Fjords”, una barca da crociera che gli valse anche un premio.
Gli alloggi saranno posizionati in vari punti del paese e offriranno ai viaggiatori un’esperienza diversa in ogni posto che visiteranno. Due sono le strutture disponibili, la mini e la media, ed essendo posizionate con l’elicottero possono essere installate nelle location più interessanti e difficili da raggiungere.
“Volevamo creare un prodotto che potesse regalare un’esperienza unica con un impatto ambientale minimo. Volevamo offrire un prodotto che facesse ricongiungere i visitatori con la natura ma che avesse il comfort di una camera d’albergo. Un prodotto che potesse essere posizionato ovunque, adatto a qualsiasi ambiente,” ha raccontato a Lonely Planet Torstein Aa, designer di Livit.
La compagnia promette ai suoi ospiti un’esperienza unica e un senso di libertà e pace, le finestre mostrano ogni tipo di clima. “Tutti gli scenari più diversi, dal tramonto sui fiordi, al mare in tempesta alla rilassante vista delle montagne”.
Attualmente ci sono due birdbox posizionate nella costa occidentale della Norvegia. “È possibile anche acquistarne una. Tra non molto ci saranno più birdbox in delle location nuove,” ha dichiarato Torstein.
Fonte: lonelyplanetitalia.it- James Gabriel Martin
La Norvegia offre un incredibile ambiente naturale incontaminato, dai maestosi fiordi e le coste frastagliate ai ghiacciai e i pascoli verdi. E adesso una compagnia ha annunciato il lancio di una serie di rifugi per capitalizzare questo panorama mozzafiato: le birdbox, eleganti alloggi futuristici dotati di enormi vetrate per ammirare il paesaggio
Ideato da Livit, il “nido d’uccello per umani” ha un design minimalista che mette in risalto lo scenario che lo circonda. Questi rifugi dalle forme e i colori ispirati alle montagne norvegesi sono stati progettati per mimetizzarsi nella natura. Il designer di Birdbox e cofondatore di Livit è il designer norvegese Torstein Aa, famoso per “Vision of The Fjords”, una barca da crociera che gli valse anche un premio.
Gli alloggi saranno posizionati in vari punti del paese e offriranno ai viaggiatori un’esperienza diversa in ogni posto che visiteranno. Due sono le strutture disponibili, la mini e la media, ed essendo posizionate con l’elicottero possono essere installate nelle location più interessanti e difficili da raggiungere.
“Volevamo creare un prodotto che potesse regalare un’esperienza unica con un impatto ambientale minimo. Volevamo offrire un prodotto che facesse ricongiungere i visitatori con la natura ma che avesse il comfort di una camera d’albergo. Un prodotto che potesse essere posizionato ovunque, adatto a qualsiasi ambiente,” ha raccontato a Lonely Planet Torstein Aa, designer di Livit.
La compagnia promette ai suoi ospiti un’esperienza unica e un senso di libertà e pace, le finestre mostrano ogni tipo di clima. “Tutti gli scenari più diversi, dal tramonto sui fiordi, al mare in tempesta alla rilassante vista delle montagne”.
Attualmente ci sono due birdbox posizionate nella costa occidentale della Norvegia. “È possibile anche acquistarne una. Tra non molto ci saranno più birdbox in delle location nuove,” ha dichiarato Torstein.
Fonte: lonelyplanetitalia.it- James Gabriel Martin
Non lontano da Dublino sorge uno dei luoghi più misteriosi d’Irlanda, così particolare da essere ancora oggi un enigma per quanti cercano di decifrarlo: Newgrange. Questo sito è una grande tomba a corridoio parte di una più complessa necropoli neolitica, oggi Patrimonio dell’Umanità, conosciuta col nome di Brú na Bóinne: la sua nascita avvenne ben 600 anni prima di quella delle piramidi egiziane e 1000 rispetto a Stonehenge e ancora oggi non è chiaro il motivo per cui fu realizzato. L’ipotesi più probabile è che questa fosse un’area di sepoltura: eppure si ha il dubbio che sia solo una parte di un qualcosa di maggiormente articolato, perché studi effettuati nel secolo scorso hanno aperto nuovi affascinanti interrogativi.
Come si presenta
Chi si aspetta un qualcosa di imponente rimarrà deluso: il tumulo, infatti, è alto poco più di 10 metri, con un diametro di circa 80 e la parte superiore ricoperta da un manto verde. Un po’ anonimo, ma non bisogna lasciarsi influenzare dalla prima impressione, perché già avvicinandosi si avvertono arcane energie vibrare nell’aria. Newgrange, nelle cui vicinanze ci sono 12 rocce verticali, forse resti di un più ampio cerchio di menhir. È composto da un muro di pietre di quarzo bianche e nere e da un ulteriore cerchio perimetrale di 97 massi: uno di questi è posto di fronte all’ingresso della tomba, quasi a vigilare sul sito, ed è famoso per le incisioni a spirale. La piccola entrata conduce in un ambiente tenebroso e un po’ claustrofobico: uno stretto passaggio di 19 metri porta a una camera centrale a forma di croce, che ospita tre nicchie, ognuna delle quali contiene una vasca in pietra dove si conservavano i resti dei defunti.
Atmosfere suggestive
Ci si sente un po’ come degli intrusi che, rompendo la sacralità, sono stati catapultati in un mondo fuori dall’ordinario fermo a millenni fa. Avvolto dal buio fitto e da un silenzio irreale: non è un semplice sepolcro, ma un vero scrigno di antiche memorie fatto da monoliti incisi che sembrano esser pronti a svelare ogni segreto. Il sito fu scoperto dall’archeologo O’Kelly il 21 dicembre 1967: data significativa in quanto ricorrenza del solstizio d’inverno, evento da sempre intriso di significati mistici per le popolazioni di ogni epoca. È il giorno più breve dell’anno ma, paradossalmente, per Newgrange è il momento del trionfo della luce: le tenebre che, infatti, ne avvolgono l’interno indietreggiano fino a scomparire dinnanzi all’espandersi dei raggi solari, grazie al perfetto allineamento della porta di ingresso rispetto al sole. Così, l’inquietudine dovuta al buio svanisce perché tutto riprende vitalità, quasi come fosse un corpo che si desta da un lungo sonno, ricaricato da misteriose energie che divampano ovunque.
Nuovi interrogativi
Lo spettacolo, però, dura pochi minuti prima che l’ambiente torni a essere avvolto dal buio fino al successivo solstizio. Tutto questo apre le porte a nuove considerazioni: forse il tumulo non serviva solo come tomba, ma era usato anche come calendario o luogo per rituali per celebrare i confini tra vita e morte? Se nell’oscurità erano deposti per il riposo eterno i corpi, la luce era la guida per le anime verso il mondo spirituale? Il tempo passa, i misteri restano: è questo il fascino dell’Irlanda.
Fonte: latitudeslife.com
Non lontano da Dublino sorge uno dei luoghi più misteriosi d’Irlanda, così particolare da essere ancora oggi un enigma per quanti cercano di decifrarlo: Newgrange. Questo sito è una grande tomba a corridoio parte di una più complessa necropoli neolitica, oggi Patrimonio dell’Umanità, conosciuta col nome di Brú na Bóinne: la sua nascita avvenne ben 600 anni prima di quella delle piramidi egiziane e 1000 rispetto a Stonehenge e ancora oggi non è chiaro il motivo per cui fu realizzato. L’ipotesi più probabile è che questa fosse un’area di sepoltura: eppure si ha il dubbio che sia solo una parte di un qualcosa di maggiormente articolato, perché studi effettuati nel secolo scorso hanno aperto nuovi affascinanti interrogativi.
Come si presenta
Chi si aspetta un qualcosa di imponente rimarrà deluso: il tumulo, infatti, è alto poco più di 10 metri, con un diametro di circa 80 e la parte superiore ricoperta da un manto verde. Un po’ anonimo, ma non bisogna lasciarsi influenzare dalla prima impressione, perché già avvicinandosi si avvertono arcane energie vibrare nell’aria. Newgrange, nelle cui vicinanze ci sono 12 rocce verticali, forse resti di un più ampio cerchio di menhir. È composto da un muro di pietre di quarzo bianche e nere e da un ulteriore cerchio perimetrale di 97 massi: uno di questi è posto di fronte all’ingresso della tomba, quasi a vigilare sul sito, ed è famoso per le incisioni a spirale. La piccola entrata conduce in un ambiente tenebroso e un po’ claustrofobico: uno stretto passaggio di 19 metri porta a una camera centrale a forma di croce, che ospita tre nicchie, ognuna delle quali contiene una vasca in pietra dove si conservavano i resti dei defunti.
Atmosfere suggestive
Ci si sente un po’ come degli intrusi che, rompendo la sacralità, sono stati catapultati in un mondo fuori dall’ordinario fermo a millenni fa. Avvolto dal buio fitto e da un silenzio irreale: non è un semplice sepolcro, ma un vero scrigno di antiche memorie fatto da monoliti incisi che sembrano esser pronti a svelare ogni segreto. Il sito fu scoperto dall’archeologo O’Kelly il 21 dicembre 1967: data significativa in quanto ricorrenza del solstizio d’inverno, evento da sempre intriso di significati mistici per le popolazioni di ogni epoca. È il giorno più breve dell’anno ma, paradossalmente, per Newgrange è il momento del trionfo della luce: le tenebre che, infatti, ne avvolgono l’interno indietreggiano fino a scomparire dinnanzi all’espandersi dei raggi solari, grazie al perfetto allineamento della porta di ingresso rispetto al sole. Così, l’inquietudine dovuta al buio svanisce perché tutto riprende vitalità, quasi come fosse un corpo che si desta da un lungo sonno, ricaricato da misteriose energie che divampano ovunque.
Nuovi interrogativi
Lo spettacolo, però, dura pochi minuti prima che l’ambiente torni a essere avvolto dal buio fino al successivo solstizio. Tutto questo apre le porte a nuove considerazioni: forse il tumulo non serviva solo come tomba, ma era usato anche come calendario o luogo per rituali per celebrare i confini tra vita e morte? Se nell’oscurità erano deposti per il riposo eterno i corpi, la luce era la guida per le anime verso il mondo spirituale? Il tempo passa, i misteri restano: è questo il fascino dell’Irlanda.
Fonte: latitudeslife.com