La Malesia è una destinazione davvero particolare, che si differenzia da qualunque altro Paese per alcuni fattori in primis la foresta pluviale tropicale e le sue isole caratterizzate da sabbie chiare e acqua turchese in tutte le sue gradazioni.
Pochi posti al mondo permettono di combinare in un unico viaggio esperienze così ricche, senza dimenticare la varietà multietnica (da qui il logo ‘Malaysia Truly Asia’), la cultura antica, la gastronomia, il benessere, o sport, lo shopping, le tradizioni e il folklore.
E in questa edizione è proprio delle isole che vi vogliamo parlare: le principali isole della costa Est sono Perenthian, Tioman, Redang (le maggiori per dimensioni) ed inoltre Tenggol, Lang Tengah e Kapas. Possono essere facilmente raggiunte da servizi di navigazione che partono dalle stazioni marittime situate lungo la costa, le cui città principali nelle vicinanze sono ben connesse a Kuala Lumpur da voli giornalieri e buone connessioni stradali. Diversamente dalla costa Ovest, sulla costa Est il monsone soffia da Ottobre-Marzo: in questo periodo, il meno indicato per una visita, diversi resort chiudono.
Le isole della costa Est non sono però solo spiagge, fondali e mare cristallino: fitte foreste pluviali, incantevoli resort, eredità storiche, villaggi di pescatori dove la vita scorre ancora lenta e semplice, sono ciò che vi potrete trovare. Ciascuna isola ha le proprie caratteristiche e può soddisfare i sogni di ogni visitatore: esploratori di foreste, appassionati di diving e snorkeling, amanti del relax e del comfort, romantici osservatori del cielo stellato e degli orizzonti al tramonto.
Vediamo ora, una ad una, quali sono le isole, “Pulau” in lingua locale.
Pulau Perenthian
Le due isole che formano Perenthian sono situate a 20 km dalla costa e, per via dell’assenza di hotel e resort di grosse catene alberghiere internazionali (ci sono comunque resort esclusivi di minori dimensioni, ed anche sistemazioni per i backpackers) e del trasporto motorizzato, puoi realmente sentirti in un paradiso tropicale lontano da tutto. Alcuni visitatori scelgono l’isoletta di Kecil, la più piccola, essendo maggiormente low-cost e con una vita sociale più vivace; altri preferiscono Besar per l’atmosfera tranquilla, i silenzi della natura e sistemazioni di livello superiore, sebbene più accessibili nei prezzi di quanto si possa immaginare. Perenthain è probabilmente l’isola migliore dove prendere la licenza da subacqueo e dove soggiornare se siete soprattutto amanti dello snorkeling, che potete facilmente fare non appena uscite dal vostro resort ed attraversate la spiaggia di fine sabbia bianca.
Perché Perenthian: un incredibilmente ricco mondo sottomarino, spiagge bianche ed acque trasparenti, resort più intimi e tranquilli (su Besar), sistemazioni per ogni budget e dinamica vita sociale (su Kecil).
Pulau Redang
Il gruppo di isole che forma Redang si colloca a circa 45 km dalla costa ed è situato all’interno di un parco marino protetto. Redang è conosciuta per la bellezza delle spiagge immacolate, la natura e i suoi resort di lusso, di cui molti appartengono a catene alberghiere internazionali. L’isola attrae appassionati di avventure eco-sostenibili oltre che di amanti del puro relax. Lussureggianti foreste color smeraldo coprono Redang, dalle cui morbide colline si possono avere bellissimi scorci del mare del Sud della Cina.
Perché Redang: spiagge incantevoli ed acque cristalline, esperienze ecologiche (per esempio presso la nursery delle tartarughe marine), il parco marino, resort di standard internazionale, spiagge dove fare bagni di sole, diversi luoghi fuori dai percorsi più turistici (come la piscina naturale di Pasir Gontang e la spiaggia di Pasir Mak Kepit dove si narra che sia ancora possibile sentire il profumo lasciato da una leggendaria principessa vissuta nel passato.
Pulau Tioman
Pulau Tioman è l’isola più grande di un arcipelago che include anche Seri Bulat, Sembilang, Tulai, Chebeh, Labas, Sibu and Renggis. Tioman si trova a circa 60 km dalla costa, nello stato federale di Pahang. Come Perenthian e Redang è conosciuta per i suoi meravigliosi fondali e per le innumerevoli possibilità di fare diving e snorkeling. Se comparata alle due isole precedenti la stretta Tioman appare piacevolmente meno sviluppata e in gran parte coperta da una fitta giungla, senza infrastrutture invasive, grosse strade e lussuosi hotels di grosse dimensioni. Tioman si attraversa principalmente a piedi, con sentieri e percorsi che collegano piccole spiagge paradisiache e villaggi. Tioman è riconosciuta come una delle più belle isole del mondo, con una natura rigogliosa, casa di farfalle, cervi, scimmie, iguane e di una ricchissima fauna marina. Tioman possiede acque cristalline azzurre e color smeraldo, eccellenti per lo snorkeling. Inoltre Tioman offre la possibilità di venire a contatto con usi e costumi locali: ogni villaggio (i maggiori sono Salang, Tekek, Genting, Paya e Juara) ha il suo charme e la sua autenticità e sicuramente merita di essere visitato. Pensate, si può persino scalare le ripide rocce granitiche che sorgono in mezzo alla giungla.
Perchè Tioman: un incredibile mondo sottomarino, piccole spiagge paradisiache, trekking e climbing, animals-watching, cultura locale ed autentici villaggi, la leggenda della “principessa-drago”, che scelse Tioman per riposare e fermarvicisi per sempre.
Pulau Tenggol
Pulau Tenggol è un’isola molto piccola e meno nota rispetto alle tre isole citate prima. I suoi fondali sono pero’ splendidi per il diving, con oltre venti location da scegliere per le vostre immersioni. Qui le correnti sono più forti ed è per questo che Tenggol viene suggerita a subacquei con esperienza piuttosto che a principianti. Tenggol può inoltre offrire diversi sentieri per un light trekking ed ovviamente spiagge dove semplicemente sdraiarsi al sole. Ci sono pochi resort sull’isola – il Tenggol Resort, il Tenggol Island Beach Resort e il Tenggol Aqua Resort – e sono composti da tipiche capanne di legno sulla spiaggia e raggiungibili solo dal mare: sono gli unici posti dove è possibile mangiare, non essendoci altri luoghi pubblici di ristoro sull’isola.
Perché Tenggol: diving, light trekking, pochi (tipici) resort ed una reale immersione nella natura, l’essenzialità e la semplicità di un luogo lontano dal turismo abituale.
Pulau Lang Tengah
Anche Lang Tengah è un’isola molto piccola e meno nota di Perenthian e Redang, nelle cui vicinanze è posizionata. L’unico modo di raggiungere Lang Tengah è via mare dalla stazione marittima di Merang. L’isola può essere circumnavigata in soli dieci minuti e le sue spiagge sono molto strette, quindi senza un ampio entroterra. Come per Tenggol, le dimensioni ridotte dell’isola hanno preservato dalla costruzione di grandi resort, che infatti sono pochi e inseriti perfettamente nel contesto naturale.
Perché Lang Tengah: diving, la pace ed il silenzio di un posto lontano dal turismo abituale, piccoli resort tranquilli ed inseriti nella natura.
Pulau Kapas
Kapas è un’altra isoletta al largo della costa dello Stato di Terengganu e dista circa 6 km dal litorale di Marang. Come per le altre isole di minori dimensioni la sua caratteristica è l’atmosfera intima e tranquilla dove i soli rumori sono quelli delle onde e del vento che scuote le palme. Le sue spiagge sono bianche ed immacolate e le acque trasparenti sono casa di un’incredibile fauna marina fatta di coralli, pesci multicolori e tartarughe. Anche a Kapas è facile praticare diving e snorkeling ovviamente, oltre al windsurf, alla vela e la pesca. Le strutture sono limitate ma è possibile trovare soluzioni per ogni budget.
Perché Kapas: atmosfera rilassata, fondali marini, pochi resort e tipici, comodità e vicinanza a Kuala Terengganu e alla costa.
Fonte: Ente Turismo Malesia – Italia
Il basso costo della vita, gli ottimi servizi a standard occidentali, la sua indiscutibile bellezza e quiete ed il fatto che si può visitarla in completa autonomia semplicemente affittando un motorino e girando liberamente per l’isola, fa di Koh Phanganun luogo da visitare assolutamente durante il vostro viaggio in Thailandia.
Thong Nai Pan Bay è la più grande delle baie di Koh Phangan, molto scenografica e ben protetta dalle onde, al suo interno il mare è quasi sempre calmo. Tra tutte le baie dell’isola è quella che forse assicura il miglior mix tra bella spiaggia, varietà di alberghi e ristoranti e possibilità di fare belle escursioni.
Le spiagge sono due, Thong Nai Pan Noi e Thong Nai Pan Yai, una simile all’altra. La prima è più piccola e con pochi resort, quasi tutti di livello medio-alto. La seconda è più lunga e movimentata ed offre maggiori scelte sia riguardo agli hotel che ai ristoranti; bella, ampia, perfetta per nuotare. La sabbia è bianca e fine, il fondo del mare un velluto. A parte la piacevolezza e la tranquillità del posto la cosa che più si apprezza di Thong Nai Pan è la posizione ottimale per fare escursioni. Due delle spiagge più belle e caratteristiche dell’isola sorgono a soli 15/20 minuti di barca, la Bottle Beach a nord e Thaan Sadet poco a sud. Il modo più comodo per arrivare da Haad Rin o Thong Sala è il taxi o in minibus: la strada è ormai quasi tutta asfaltata ed attraversa la giungla.
Fonte: turismothailandese.it
Durante un soggiorno ad Aruba è assolutamente imperdibile una visita all’Arikok National Park, tra distese di cactus e scorci mozzafiato sull’oceano. Nell’attesa di poterlo vedere dal vivo, ecco un assaggio di quello che vi aspetta!
In questo momento in cui non è possibile visitare Aruba, ci piacerebbe portare un po’ di Aruba nelle vostre case.
Anche se non ci è ancora possibile viaggiare fisicamente, possiamo sicuramente farlo con i nostri sensi. Ecco qui di seguito un video da poter condividere e sfogliare nelle prossime settimane con l’obiettivo di portare nelle case dei viaggiatori un po’ di allegria e positività caraibica che contraddistinguono la nostra Isola Felice.
Dedicatevi un momento zen: in questi giorni così complicati tutti abbiamo bisogno di un po’ di azzurro mare. Nell’attesa che possiate tornare a trovarci, ecco un po’ di Aruba per voi!
Anche se sono passati solo pochi giorni, i nostri visitatori ci mancano già terribilmente. Come diciamo in Papiamento, “solo ta briya” – “il sole splende”. Il luminoso sole di Aruba e i caldi abbracci locali continueranno ad aspettarvi qui, nella vostra seconda casa, quando sarà finalmente possibile
Fonte: Global Tourist – Aruba Tourism Authority Italia
Il paese dove vogliamo portarvi è un piccolo paese di ottomila abitanti, piazzato in un Marocco che è già quasi Algeria. Un paese dalla storia antica (1500-1600 dopo Cristo), dalle case basse, incompiute e perennemente scrostate
È un nomade di professione come Paul Bowles, scrittore statunitense che si fece adottare dal Marocco, a venirci in aiuto e spiegare alcune delle suggestioni che innescano il contatto con un luogo come M’Hamid El Ghizlane: “qui si tratta di secoli, non di migliaia di miglia”
In questo lembo di Marocco profondo, a pochi chilometri dall’Algeria, la strada asfaltata finisce e inizia il regno delle sabbie, il Sahara appunto, e il tempo sembra essersi fermato. È un posto acre come il pisé (un misto di argilla e paglia) con cui vengono costruite le case del paese, come le chiazze nel letto del fiume Drâa (un fiume qui praticamente sempre in secca, che non arriva al mare), come il colore prevalente delle automobili (perlopiù ocra), come la sfumatura del legno dei carretti trainati dai muli. Un posto alla fine del mondo, dove ancora arrivano i tuareg con le loro tende, i loro cammelli e i loro dromedari e dove vale come indicazione la scritta che qualche ottimista ha piazzato a Zagora, l’ultima cittadina che si incontra prima di incunearsi in un lungo tratto di implacabile hammada (un tipo di deserto con rocce aguzze e pietrisco) e arrivare a questa vera e propria porta del deserto che è M’Hamid El Ghizlane: la scritta recita “Timbouctou, 52 giorni” e si riferisce naturalmente al tempo di percorrenza della distanza a dorso di cammello.
Deve essere stato un ottimista a piazzare quella scritta, perché i paesi da attraversare per coprire la distanza dalla regione del Drâa a Timbuctu – l’Algeria e il Mali – hanno una serie di laceranti problemi: basti pensare alle frizioni e al contenzioso marocchino-algerino legato alle terre del sud, in particolare al Sahara Occidentale, che ha fatto diventare la frontiera tra i due stati quasi impermeabile e basti pensare alla deriva islamista del nord del Mali che ha provato in un primo tempo a inglobare la lotta identitaria della varie associazioni Tuareg, le quali per fortuna si sono piano piano dissociate dai deliri integralisti dei paladini della shaaria.
Festival des Nomades
Il viaggio che i nomadi del deserto hanno praticato per secoli è diventato sempre più difficile e pericoloso, eppure c’è chi lo attraversa ancora questo sentiero millenario ed è a questa sacca di resistenza sociale e culturale che viene dedicato da diciassette anni, su iniziativa dell’indomabile direttore artistico Noureddine Bougrab, il “Festival des Nomades” di M’Hamid El Ghzilane. Un festival sostanzialmente musicale, anche se nel suo carnet di proposte ci sono una serie di iniziative accessorie – la corsa dei dromedari, l’hockey sulla sabbia, la preparazione del pane di sabbia (mella), le conferenze e le proiezioni sulla cultura tuareg – che allargano il bacino tematico. L’orizzonte culturale di questa onda transnazionale tuareg (oltre ai tre stati già citati vanno inclusi anche Libia, Mauritania, Niger e Burkina Faso) fa leva soprattutto sulla cultura orale e in quest’ambito è proprio la musica a far da turbina ispirativa e sorgente emozionale.
Sono ancora le parole di Paul Bowles a “illuminare” bene la scena: “il pubblico del Marocco e delle città di confine del deserto algerino, dove dovevano recarsi, non avrebbe protestato se la vernice era scrostata, il metallo rugginoso, le pareti di legno rattoppate. L’importante era che il rumore fosse assordante, la luce sfarzosa. Lo scopo dichiarato era quello di ingenerare prima un senso di vertigine, poi di euforia”. Precetti condivisi, edizione dopo edizione, anche sul palco del “Festival des Nomades”, un proscenio che ha già accolto tutte le grandi stelle di questa matrice sonora (dai Tamikrest a Bombino, dai Terakaft a Kader Tahanin) oltre alle ancora acerbe pulsioni elettrificate di giovani band locali come Tarwa N-Tiniri e Jeunes Nomades.
Il festival sottolinea col suo cartellone una fenomenale vena aurifera delle culture nomadi, quella tuareg appunto. Un popolo spesso perseguitato, incompreso e reietto. Serve a ricordarsi, anche grazie a queste liasons sonore alle porte del deserto, che se pure è vero che per la loro anomalia sociale nessun governo di nessuno stato del mondo ha mai amato i nomadi, pure lo “scandalo” della loro scelta nomade, della loro cultura orale e del loro status apolide, non deve essere svenduto né imbavagliato. Ne va della loro libertà e, in fondo, anche della nostra.
I mercatini con tappeti, argille e gioielli
Insieme agli artisti e al pubblico nei giorni del festival arrivano anche i commercianti e gli artigiani con le loro bancarelle. È un bene che succeda, perché il paese non pullula certo di occasioni per lo shopping e in questo modo si ha l’occasione per curiosare tra i prodotti artigianali di regioni limitrofe. La tessitura del tappeto berbero ad esempio, ovvero il Tazarbit, che rappresenta l’attività più antica della regione. I tappeti più pregiati si possono ritrovare nella parte orientale di Ouarzazate, nei contra orti dell’Atlante o a Tazenakht, alle pendici del Jbel Siroua. Tradizione trasmessa di madre in figlia, l’arte di tessere questi tappeti domestici dai colori caldi e dai motivi geometrici ha valicato, ormai da tempo, i confini del Marocco. La ceramica berbera, invece, viene dipinta di nero, di rosso o di verde. A Tamegroute (famoso villaggio di vasai, distante pochi chilometri a sud di Zagora) per esempio, viene cotta in forni antichi ed è principalmente destinata all’uso domestico: piatti, brocche, boccali. Nella provincia di Ouarzazate non mancano ori eccellenti. Le donne berbere, infatti, non potrebbero mai fare a meno dei loro gioielli. I braccialetti d’argento incisi determinano l’appartenenza tribale; le spille triangolari, che vengono utilizzate per chiudere le tuniche femminili, rappresentano simboli protettori. La produzione di pugnali è la specialità della cooperativa Azlag, a Kelâat M’Gouna. Vicino agli oued (termine arabo per indicare un fiume) gli artigiani lavorano gli steli di canne e li trasformano in panieri, tavoli, sedie e librerie.
Le escursioni nella sabbia perenne
M’hamid El Ghizlane sta per “piana delle gazzelle”, ma di gazzelle non c’è traccia. Cammelli e muli sì. Le jeep non sono ancora riuscite a sostituirli del tutto e molte delle escursioni prevedono un ticket che alterna quattro ruote e quattro zampe. Oggi M’Hamid è centro nevralgico delle partenze verso il deserto gestite da piccole agenzie che vivono del turismo solidale come fonte di benessere e scambio culturale. Anche nell’approccio al grande mare ocra si possono avere esigenze e desideri diversi. Così ci sono agenzie che propongono anche escursioni extralusso in resorts circondati da una sorta di “deserto privato” e molte altre che propendono per una filosofia più spartana con tende montate di sera in sera, accampamenti e bivacchi molto essenziali, percorsi che seguono le vie dei cammellieri e ogni tanto sfidano le dune: erg Chegaga a 50 chilometri, erg Ezahar a 65 chilometri, erg Esma a 80 chilometri e le dune erg Lihoudi ed el Mesouiria a 8 chilometri ciascuna da M’Hamid. Se erg Chegaga è la più conosciuta e visitata, consigliamo vivamente di trovare il tempo per andare a el Mesouiria, dove si possono ammirare dune di sabbia bianca disseminate di tamarindi, piccoli arbusti dai fiori rosa a spighe.
Il battesimo del turbante
Dopo qualche giorno di permanenza da queste parti finirete anche voi per cedere al look del posto e comprarvi al prezzo di 50 dirham (circa 5 €) un chèche o tagelmust, il foulard lungo dai 4 agli 8 metri che si arrotola a turbante, indispensabile anche per iniziare a far parte della comunità frontaliera. Un capo particolarmente utile quando si scatena il vento (e si scatena spesso) ed è una specie di “battesimo della sabbia”, cui ci si sottopone volentieri perché portare un tagelmust equivale a leggere un libro sugli usi e costumi del popolo del deserto.
Fonte: lonelyplanetitalia.it – Valerio Corzani
Da Into the Wild a Easy Rider, sono tanti i film che ispirano i viaggiatori. Da quelli romantici a quelli solitari, abbiamo creato una gallery per le prossime serate a casa
Con l’emergenza Coronavirus, la nostra vita sta cambiando drasticamente. Per un po’ non potremo più viaggiare, andare alla scoperta di nuovi luoghi o visitare città europee. Abbiamo pensato allora di far volare almeno la fantasia con 10 film per tutti i gusti.
Si parte dal film tra i più amati tra i viaggiatori, Into the wild – Nelle terre selvagge per seguire la storia di ricerca di Christopher McCandless fino in Alaska a I sogni segreti di Walter Mitty, perfetto per chi vuole darsi la carica fino a Sette anni in Tibet, storia vera e indimenticabile di come un luogo unico al mondo riesce a cambiare la vita di una persona, interpretato deal bellissimo Brad Pitto.
Un modo per continuare a scoprire luoghi stupefacenti, aspettando di fare le prossime valigie, ma per davvero!
Sfogliate la gallery per farvi ispirare.
Fonte: vanityfair.it – Melania Guarda Ceccoli
Luoghi naturali da inserire nella lista dei desideri dei vostri futuri viaggi nel Great American West
Sebbene la maggior parte delle frontiere siano al momento chiuse e alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale non sia consentito viaggiare, non è detto che non si possa sognare! Tra le numerose destinazioni di viaggio ideali nel mondo, il Great American West offre alcune delle bellezze naturali più iconiche che si possano immaginare. I cinque stati di questa regione sono la destinazione ideale che tutti ci meritiamo dopo questo periodo di quarantena. Seguiteci quindi alla scoperta di queste meraviglie naturali da inserire nella vostra lista dei desideri dei futuri viaggi:
City of Rocks National Reserve, Idaho
La City of Rocks National Reserve è una delle migliori avventure dell’Idaho meridionale. Quest’area protetta di 5.830 ettari si trova all’estremità meridionale delle Albion Mountains e vanta torreggianti pinnacoli, guglie e volte rocciosi. Scalatori da ogni parte del mondo giungono qui per conquistare le cime che presentano vari livelli di difficoltà. La riserva è rinomata anche per escursionismo, mountain biking e bird watching. I migranti in viaggio lungo il California Trail descrissero le rocce qui con dettagli molto vividi come “una città con alti pinnacoli”, “torri di roccia” e “città silenziosa.”
Glacier National Park, Montana
Nominato parco nazionale nel 1910, è una terra di catene montuose scolpite da fiumi ghiacciati preistorici. Vanta prati alpini, fitte foreste, cascate, circa 50 ghiacciai e 200 scintillanti laghi. I panorami che si possono ammirare dall’unica strada che attraversa il parco – Going-To-The-Sun Road – sono spettacolari e di sicuro il paradiso per ogni fotografo. Nel parco, che ha un’estensione di oltre 4140 km², esistono relativamente pochi chilometri di strade, in modo da preservare la sua bellezza naturale, primitiva ed incontaminata.
Theodore Roosevelt National Park, North Dakota
Ubicato tra i colorati canyon delle Badlands del North Dakota occidentale, questo è un parco nazionale che merita a buon titolo di essere inserito nella vostra lista dei futuri viaggi. Senza la folla e le code tipiche di alcuni parchi nazionali, è facile scoprire qui un senso di libertà. Percorsi per hiking vi condurranno a scoprire paesaggi scenografici, una foresta pietrificata e praterie popolate da bisonti, cavalli selvaggi, cani delle praterie, cervi e molti altri animali. Si può accedere alla selvaggia North Unit nei pressi di Watford City oppure alla più ampia South Unit dalla cittadina in stile Old West, Medora. Gli appassionati di storia apprezzeranno di sicuro vedere il capanno appartenuto al presidente americano “conservazionista”, Theodore Roosevelt, ed anche la Elkhorn Ranch Unit del parco dove visse e fece l’allevatore.
Badlands National Park, South Dakota
Questo straordinario paesaggio in South Dakota è caratterizzato da un labirinto di canyon, collinette, pinnacoli e guglie. Tra i numerosi fossili, qui sono stati ritrovati scheletri di cavalli con zampe a tre dita e leoni dalle zanne a sciabola. La fauna abbonda nei quasi 10.000 ettari e spesso si possono fare avvistamenti durante una passeggiata o mentre si percorre la Badlands Loop Scenic Byway. Qui vivono moltissimi animali, come le pecore bighorn, bisonti, volpi e la specie protetta del furetto dalle zampe nere. Spesso si avvistano antilopi e cervi che camminano lungo la strada e nei pressi delle aree di sosta. Non meravigliatevi, poiché il parco vanta oltre 25.000 ettari di terre protette non abitate.
Grand Teton National Park, Wyoming
Gli oltre 125.000 ettari del Grand Teton comprendono lussureggianti vallate, prati di montagna, laghi alpini e le svettanti cime del Teton Range. Se location iconiche come Mormon Row e Moulton Barns (qui a destra) sono tra le location più fotografate nel parco, le cime celestiali del Grand Teton forniscono lo scenario perfetto per gli amanti della natura, per gli appassionati di outdoor e per tutti i viaggiatori che vogliono esplorare gli incredibili paesaggi del parco. Bisonti, cervi, alci, orsi e pecore bighorn si possono facilmente avvistare nel territorio del parco.
Fonte: The Great American West – Italia
In Europa, la vita quotidiana sta gradualmente tornando alla sua nuova “normalità” influenzata dal Covid-19.
Lo smart working è sempre raccomandato e incoraggiato dalla maggior parte delle aziende. Gli eventi sociali sono vietati dai Governi locali (in Lussemburgo sono consentiti incontri all’aperto di massimo 20 persone rispettando rigorosamente il distanziamento sociale). Gli eventi che radunano più di 1.000 persone (festival culturali e musicali) non saranno ammessi almeno fino alla fine di agosto, come riportato dalla Svizzera.
Gli spostamenti non essenziali non sono consentiti. La maggior parte delle volte, i cittadini e i residenti che entrano nei Paesi devono mettersi in quarantena all’arrivo (ad esempio Belgio, Germania e Regno Unito). Per motivi di lavoro, non è richiesta la quarantena per coloro che viaggiano in Belgio e Ungheria (in questo caso, i cittadini provenienti dalla Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Germania, Austria, Corea del Sud ora possono entrare). Lo stesso accade ai lavoratori che fanno i pendolari ogni giorno tra Polonia e Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Lituania.
Nel Regno Unito, l’attenzione si concentra su programmi con grossi volumi nel 2021.
Sono in atto chiare linee guida standard in materia di igiene, tassi di occupazione degli hotel, ristoranti (in Svizzera possono servire gruppi di quattro persone, nonché genitori con bambini), cinema, teatri, negozi, aree sportive e rigide regole di distanziamento sociale. In Germania, 16 diverse regioni stanno decidendo autonomamente sulla riapertura.
Il governo spagnolo raccomanda di restare in Spagna questa estate. Nella prima fase in molti Paesi il traffico nazionale riprenderà a giugno, i voli nell’area Schengen probabilmente a luglio e quelli intercontinentali a settembre-ottobre.
Il mercato greco riferisce che il governo sta lavorando a livello internazionale per stabilire procedure condivise al fine di riaprire la Grecia al turismo straniero dal 1 ° luglio. Ciò avverrà a condizione che venga formalizzato un protocollo uniforme tra le nazioni vicine e le compagnie aeree, per salvaguardare la salute di residenti e turisti. Probabilmente, grandi isole, come Creta, saranno aperte prima delle isole minori con pochi residenti e piccole strutture sanitarie. I traghetti nazionali dovranno operare a capacità ridotta all’inizio.
Guardando agli altri continenti, anche per i mercati americani, i voli di corto raggio (principalmente per business) riprenderanno prima di quelli di lungo raggio.
In Brasile, le attuali restrizioni all’ingresso per gli stranieri saranno revocate a partire dal 27 maggio.
In Argentina, l’ultima risoluzione dell’Aviazione Civile locale ha sospeso tutti i voli fino al 1 ° settembre. I Gruppi in Europa sono stati spostati alla primavera del 2021. Alcuni settori come MICE e Crociere potrebbero essere più colpiti di altri. Nel mercato messicano, le richieste di Gruppi per Italia e Israele sono per ottobre 2020. Stessi tempi negli Stati Uniti per il recupero del turismo.
Gli agenti di viaggio canadesi non stanno spingendo alcuna destinazione. Piuttosto, stanno aspettando le richieste dei clienti dato che la maggior parte preferirebbe tornare nei luoghi ritenuti sicuri o andare da amici o parenti.
In Canada, alcuni negozi e servizi non essenziali stanno riaprendo, ma solo se si affacciano su strada, poiché il ritiro della merce avviene sul marciapiede. In Florida, i ristoranti offrono posti a sedere all’aperto con una distanza di sei piedi (n.d.r. circa 1,80 m) tra i tavoli e posti a sedere al coperto con una capacità del 25%, i bar rimangono chiusi fino a nuovo avviso e la vendita al dettaglio può riprendere ma al 25% della capacità interna.
Secondo il feedback dei nostri Country Manager americani, i viaggi di lusso potrebbero essere uno dei segmenti che riprenderà più rapidamente, soprattutto verso destinazioni internazionali. In Europa, l’Italia è annoverata tra le prime destinazioni (insieme a Grecia e Israele) che alla fine verranno riconsiderate, sulla base della percezione che, dal momento che lì il Covid-19 è iniziato prima, finirà prima.
Per quanto riguarda l’Asia, in India i viaggi di lungo raggio inizieranno gradualmente a luglio per il traffico etnico e studentesco e pacchetti vacanze da settembre verso destinazioni non fortemente colpite dalla diffusione del virus e con bassa densità demografica, come la Scandinavia e l’Europa orientale o il Sud Italia e la Sardegna.
In Giappone, lo stato di emergenza è fino al 31 maggio per ora. I principali Trade partner sono temporaneamente chiusi e le attività di pianificazione dei tour sono sospese fino ad allora, a causa dello stato di emergenza e delle festività della Golden Week. Secondo i Tour Operator, un recupero graduale avverrà a fine luglio per il traffico FIT (Free Independent Traveller) e ad agosto per i Gruppi verso destinazioni asiatiche in caso di brevi soggiorni o in Europa. I TO si aspettano un aumento della domanda dal 19 al 22 settembre grazie alle festività della Silver Week.
Compaiono finalmente segni di una leggera ripresa!
Fonte: Team Alitalia Connect
Nel corso della storia il subcontinente indiano ha assistito all’ascesa e alla caduta di alcuni dei più grandi imperi del mondo, ma nessuna dinastia è riuscita a distinguersi come quella dei Moghul
Originario dei territori che oggi appartengono all’Uzbekistan, nel 17esimo secolo l’impero fondato da Babur ha attraversato l’India come un vento del deserto, spazzando via ogni forma di resistenza e lasciando un marchio indelebile nella cultura, architettura e mentalità indiane.
Molte delle attrazioni più iconiche dell’India moderna sono state costruite dai Moghul mentre affermavano il proprio dominio attraverso il subcontinente: fortezze e palazzi romantici, archi decorati, cupole a forma di cipolla, il Taj Mahal, il Forte rosso. A quel tempo le leggi dell’impero erano spietate, persino crudeli, come scoprirono a loro spese molti eserciti nemici o religioni discordi. Ma i Moghul erano anche una dinastia molto colta, amante della musica, della poesia e delle arti, e inaugurano un’era di prosperità economica per il Paese.
L’intramontabile bellezza del Taj Mahal
Nessun monumento rievoca la grandezza dei Moghul come il Taj Mahal di Agra. Il mausoleo è stato fatto costruire nel 1632 dall’imperatore Shah Jahan per l’amata moglie, Mumtaz Mahal. Oltre a venire spesso celebrato come il più grande monumento costruito per amore, rappresenta un simbolo del potere dell’imperatore: Shah Jahan convocò infatti i migliori architetti e costruttori dell’impero per erigere un monumento commemorativo che durasse nei secoli a venire. Riuscì sicuramente nel suo intento; la perfezione architettonica di questo capolavoro in marmo bianco toglie il fiato ancora oggi nonostante lo sciame di turisti che riempie le sue terrazze intarsiate.
I forti, i minareti e i vivaci mercati di strada di Delhi
Delhi è la città in cui i Moghul posero la prima pietra del loro impero dando vita alla città di Ibrahim Lodhi nel 1526; qui l’ultimo imperatore della dinastia, Bahadur Shah Zafar, si rifugiò nella tomba del suo antenato Humayun, quando nel 1857 i britannici presero il controllo della città.
Gran parte dell’Antica Delhi è stata costruita dai Moghul, dalle imponenti mura del Forte Rosso, ai cui piedi si trova il bazaar medievale di Chandni Chowk, alla magnifica moschea in arenaria, l’edificio più che perfetto di Shah Jahan. Per conoscere veramente questa città Mughal, salite in cima al minareto sud e osservate gli aquiloni di carta volare sopra i tetti; poi spostatevi a sud a bordo di un risciò fino alla tomba di Humayun, e godetevi una tranquilla passeggiata tra gli stupendi giardini ristrutturati della Sunder Nursery.
Fatehpur Sikri: la città dimenticata
La capitale dell’India rimbalzò di città in città durante la dinastia Moghul perché ogni vanitoso imperatore aveva un proprio progetto per creare la città più grandiosa mai vista prima, spesso pensato per una location inadatta. A Fatehpur Sikri, vicino Agra, il problema fu l’acqua.
L’imperatore Akbar insisteva di voler costruire una nuova città imperiale per celebrare le sue gloriose battaglie, ma anche con le migliori intenzioni di costruttori e architetti non riuscì a sconfiggere gli elementi. Dopo soli 14 anni, l’intera città fu abbandonata a sé stessa, con le sue moschee, i suoi palazzi filigranati e le meravigliose camere dove il colto imperatore si consultava con i consiglieri dalla popolazione conquistata. Oggi si respira un’atmosfera quasi surreale: le pareti in pietra serena sono scolorite dal tempo, i vetri sono stati infranti e le finestre sembrano state intagliate il giorno prima.
Itmad-ud-Daulah, l’altro mausoleo Moghul di Agra
Durante tutto l’impero Moghul, gli architetti hanno dedicato i loro sforzi al perfezionamento del mausoleo islamico; il Taj Mahal è quasi sicuramente il massimo tra le loro opere ma esistono molte altre tombe Moghul altrettanto belle. La tomba di Humayun a Delhi si posiziona seconda nel concorso di grandiosità, e un’altra magnificenza spesso ignorata è la tomba di Itmad-ud-Daulah ad Agra, un elegante scrigno in marmo bianco costruito per Mirza Ghiyas Beg, nonno di Mumtaz Mahal, nel 1628.
Se il Taj è enorme e stravagante, Itmad-ud-Daulah ha uno stile fine e sofisticato; gli eleganti minareti sono poco più alti degli alberi circostanti. Gli intarsi nella pietra dura delle mura sono stati realizzati con migliaia di pietre semipreziose cesellate a mano e lasciano intravedere il giardino, un angolo di paradiso terreste.
I giardini Moghul di Srinagar
Disegnati seguendo il modello dei Char Bagh (i quattro giardini del paradiso), i giardini dei Moghul dovevano riprodurre sulla terra la perfezione celestiale tra padiglioni in filigrana, cascate e giochi d’acqua zampillanti, eleganti gallerie di alberi e aiuole di fiori profumati. Proprio in questi giardini gli imperatori si rifugiavano dagli orrori della guerra oppure si schiarivano i pensieri prima di partire nella campagna successiva.
Srinagar, la travagliata capitale di Jammu e Kashmir, è dove l’arte raggiunse il suo apice con una serie di giardini meravigliosi che dalle colline si estendeva fino alla superficie riflettente del lago Dal. Shalimar Bagh e Nishat Bagh hanno conservato fino ad oggi lo stesso aspetto che avevano ai tempi di Jehangir, con lunghe gallerie di platani orientali che si riflettono nelle calme acque delle piscine alimentate dalle correnti.
Taj-ul-Masjid, la più grande moschea dell’India
Dal momento in cui Bahadur Shah Zafar salì al trono nel 1837, i Moghul furono tormentati su ogni fronte dai britannici e dai risorgivi imperi hindu e sikh. Quando alla fine il potere cadde e Bahadur fu cacciato dal Forte Rosso a causa della sua partecipazione nella rivolta del 1857 contro i colonizzatori, l’imperatore divenne una figura di mera rappresentanza.
Ma il regno dell’ultimo imperatore Mughal lasciò comunque un segno, soprattutto a Bhopal, dove il Taj-ul-Masjid si erge imponente sopra le acque del Motia Talab. Costruita nell’arco di 57 anni a partire dal 1844, la più grande Moschea dell’India copre un’area di 23 mila metri quadri (tre campi da calcio), ed è dominata da tre scintillanti cupole a forma di cipolla e due minareti che fanno da sentinella.
Fonte: lonelyplanetitalia.it – Joseph Bindloss
Tre chiavi per capire Cordova
Per arrivare al cuore di Cordova, adesso però solo con la mente, questi sono i tre elementi che devi conoscere
IL SUO PASSATO
Questa città millenaria, è una testimonianza vivente delle culture che vi si sono insediate. Cordova si vanta di essere l’unica città al mondo che conta su 4 dichiarazioni UNESCO: La Moschea, il centro storico, il sito archeologico di Medina Azahara e i suoi Patios.
UN LUOGO D’INCONTRO
Questa città è un luogo di incontro tra passato e presente, poiché è riuscita ad adattarsi ai tempi moderni per offrire infrastrutture e servizi completi, un’ampia gamma di hotel e comunicazioni.
CULTURE MISTE
Cordova riflette chiaramente il ruolo guida delle potenti civiltà che l’hanno popolata. Romani, musulmani, ebrei e cristiani hanno lasciato un segno profondo nel patrimonio, nella cultura, nei costumi e nelle tradizioni di questa città millenaria.
Cosa vedere?
Cordova è una città con un enorme patrimonio culturale e monumentale, un’eredità delle diverse civiltà che l’hanno popolata. Così, nel 1994 l’UNESCO ha riconosciuto l’importanza unica del suo patrimonio storico, estendendo il titolo di Patrimonio dell’Umanità non solo alla Moschea, la Cattedrale (1984), ma anche all’area urbana circostante. Poi, sono stati aggiunti la Medina Azahara e i suoi Patios. Attualmente, Cordova si tratta dell’unica città al mondo con 4 beni iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Ci sono vestigia che testimoniano lo splendore di Cordova in certi periodi storici: il Ponte Romano sul Guadalquivir, i mosaici dell’Alcazar o le colonne del Tempio di Claudio Marcelo (I secolo). Al periodo islamico (s.VIII – s.XIII) corrisponde la Grande Moschea. Il quartiere ebraico, che ancora conserva la Sinagoga, è una testimonianza della cultura ebraica presente in città. Due edifici chiave risalgono al Medioevo: l’Alcázar de los Reyes Cristianos e la Calahorra, che permetteva l’accesso alla città. Oggi ospita un museo che offre diversi esempi della coesistenza delle culture ebraica, cristiana e musulmana nella Cordova medievale. E dall’età moderna possiamo evidenziare l’aggiunta rinascimentale alla moschea, che ha significato il ripristino di quest’ultima nel suo ruolo di cattedrale cristiana.
La Moschea di Cordova è un esempio eccezionale di architettura religiosa islamica, la testimonianza più rilevante del Califfato di Cordoba durante il quale questa città, che si dice abbia ospitato più di 300 moschee e innumerevoli palazzi, è arrivata a rivaleggiare con città di splendore come Costantinopoli e Baghdad. Le sue dimensioni e la sua maestosa altezza interna, mai eguagliata, ne fanno un’opera d’arte unica, che ha avuto un ruolo fondamentale nel l’emergere dello stile neo-islamico nel XIX secolo.
Cosa mangiare?
Esistono pochi piaceri che superano la soddisfazione ottenuta dopo un buon pasto, e questo è qualcosa di facile da ottenere in qualsiasi bar, ristorante o taverna di Cordova. Tanto che si potrebbe dire che la città di Cordoba è oggi la capitale gastronomica dell’Andalusia, poiché la sua lunga tradizione culinaria, in cui è possibile seguire la tradizione romana, musulmana ed ebraica, è integrata dall’inserimento di criteri innovativi nella cucina creativa e d’autore.
La cucina cordobesa riflette nei suoi piatti, in termini di ingredienti e metodi di preparazione, le tradizioni e i sapori di tutti i popoli che hanno vissuto insieme in questa terra.
Ai Romani si deve la devozione per l’olio d’oliva, base della dieta mediterranea, e che nei confini provinciali trovavano due denominazioni d’origine, quelle di Baena e Priego de Cordoba; l’influenza araba si nota nel gusto per la mescolanza di sapori agrodolci e l’uso di verdure e noci, soprattutto nella pasticceria, dove troviamo anche l’eredità ebraica. I cristiani incorporano la carne alla tavola “cordobesa”, così come i modi di elaborarla, e oggi, in qualsiasi stabilimento della capitale, si può gustare il rinomato prosciutto iberico prodotto a Los Pedroches e che ha la Denominazione di Origine.
Oltre ai buoni oli e alle ottime carni, il ricettario “cordobes” si nutre di altri piatti tipici come salmorejo, ormai famoso in tutto il mondo, flamenquín o rabo de toro (simile alla coda italiana).
Cosa fare?
Cordova cambia volto ad ogni stagione dell’anno. Riceve l’anno vestito di luci, con le strade illuminate e i patii addobbati con dei fiori invernali. Con la primavera e l’estate arriva il sole e il bel tempo, e tutto si riempie di colori. sono le stagioni ideali per godersi la vita notturna cordobesa e le sue lunghe giornate (quasi due ore di luce solare in più che in Italia), quasi sempre soleggiate. Così, durante i mesi di giugno, luglio e agosto, nei diversi quartieri della città si svolgono numerose feste e fiere popolari, dove si può godere del flamenco, vino di Montilla-Moriles, Denominazione Origine in provincia, e deliziose tapas.
Da luglio a settembre si svolge anche un vasto programma di intrattenimento culturale notturno, con la presenza di artisti di flamenco, danza contemporanea, musica classica, teatro, jazz… che copre tutti gli stili e le forme di interpretazione. Si crea così un unico spettacolo, che è la città storica stessa, che partecipa all’incontro delle culture.
In primavera la città si propone più bella che mai per contemplare tutte le sue bellezze. È la stagione delle feste per eccellenza, dalle processioni di Pasqua, a tutte le tue celebrazioni più rappresentative durante il mese di maggio, che cominciano con las cruces de mayo, Croci fatte con i fiori che si possono visitare nelle piazze e piazzette del centro storico, e finiscono con la Feria, la festa più amata dai locali. Ma la festa che da colore e segna d’identità al mese sono i Patios.Durante due settimane cortili e balconi, colmi di fiori, si sfidano per conoscere il più bello di ogni anno. I Patios de Cordova sono stati ormai riconosciuti come Patrimonio Mondiale dall’UNESCO.
In autunno, Cordova si copre di toni ocra per ricevere ai suoi visitatori..Il giorno di San Rafael, che fa di le volte di patrone della città, i cittadini si riuniscono per cucinare i mangiare insieme il tipico Perol Cordobes, piatto a base di riso cucinato con dei prodotti locali.
Addirittura, a inizio anno, il Festival kalendas ricupera il passato romano con diversi incontri, eventi e spettacoli che girano attorno il passato romano in questa città.
Cosa comprare?
Cordova deve il suo prestigio come centro artigianale alla lavorazione del cuoio e dell’argento. Così, da tempo immemorabile, gli argentieri di Cordova godono di una discreta reputazione per la loro qualità artistica. Oggi a questi si è aggiunta una nuova gioielleria, sperimentando il design, i metalli e le tecniche, facendo di Cordoba uno dei principali produttori europei.
Anche il cuoio, un commercio emblematico che risale agli arabi, continua ad essere lavorato con le tecniche tradizionali che da sempre si svolgono in città.
Il Zoco municipale, con ingresso di fronte alla Sinagoga, in Calle Judíos, è il luogo giusto per acquistare alcuni di questi oggetti e per osservare il lavoro degli artigiani. Per i buongustai, non tornare a casa da Cordova senza una bottiglia del suo vino dolce Pedro Ximenez, aceto di Montilla-Moriles o salumi e iberici e formaggi del Valle de los Pedroches.
Fonte: Turespaña – Ufficio Spagnolo del Turismo, Roma
In 15 anni la North Pole Marathon è stata annullata una sola volta per il meteo avverso. Un fatto che parla da sé considerando che si svolge in condizioni di freddo tali per cui ogni altra maratona nel resto del pianeta verrebbe cancellata
Fu questo il motivo delle mie notti insonni la settimana prima della gara. Detesto il freddo, tanto che la sola idea di correre sotto i 15° C mi innervosisce. Ma una corsa nell’Artico sarebbe stata un’esperienza del tutto nuova per la mia carriera di runner. Era il 2014 e stavo per compiere 40 anni: quale occasione migliore per tentare un’impresa estrema.
Per quanto pericoloso, il Polo Nord è una meraviglia sovrannaturale. Pur essendo intimamente consapevole che faresti meglio a trovarti altrove, ne sei rapito, ti incute rispetto, un po’ come un deserto remoto. È una delle maratone che mi sono rimaste nel cuore (malgrado abbia registrato uno dei miei tempi peggiori) e il Polo Nord è certamente uno dei luoghi più straordinari che abbia mai visitato. Correre, tra l’altro, è stata solo una piccola parte dell’esperienza.
Durante il volo per la Norvegia cominciai a capire perché l’iscrizione a questa maratona costasse la bellezza di 16.000 euro. In qualità di atleta sponsorizzato avevo la fortuna di non dover affrontare la spesa e mi chiedevo chi mai fosse in grado di permetterselo. In realtà si trattava dei soliti noti: consulenti finanziari, broker, runner che corrono a scopo di raccolta fondi e atleti professionisti come me, tutti provenienti da una decina di Paesi diversi. Mi sorprese il desiderio di avventura condiviso. Tutti nutrivano una passione per le esperienze uniche, come questa, e per me fu incoraggiante. Non c’è runner che dopo aver corso una maratona prima o poi non desideri aggiungere un’impresa speciale al proprio curriculum.
Arrivato a Oslo presi un volo per Svalbard, l’insediamento abitato più a nord del pianeta. Qui runner e unità di supporto attendono una finestra di bel tempo per potersi imbarcare su un vecchio aereo russo che li trasferisce 650 miglia ancora più a nord, al Polo.
Il paesaggio visto dall’alto è di un bianco abbacinante. Qui si trova Camp Barneo, una base temporanea con pista di atterraggio che ogni anno viene scavata nel ghiaccio da paracadutisti russi appositamente per la corsa. Giunto a destinazione vidi quale unico segno della presenza umana un gruppetto di tende blu contro un’interminabile distesa di vuoto. Un panorama severo dove si ha la sensazione di trovarsi al Polo Nord solo nel momento in cui si mette piede fuori dall’aereo e ci si trova avvolti nel freddo.
A poca distanza dalla pista sono dislocati i dormitori, la mensa e i servizi igienici, che in questo contesto non sono che un grande secchio foderato da un pesante sacco della spazzatura, chiuso da un sedile di polistirolo (qualsiasi altro materiale rischierebbe di congelare la pelle). Trovai rapidamente la mia branda, sistemai il bagaglio e feci conoscenza con il mio ‘compagno di stanza’, Kolja, un tedesco cacciatore di sponsor per la Formula Uno. Scambiammo due chiacchiere, ma intanto non facevo altro che chiedermi se sarei mai riuscito a correre in queste condizioni.
Il percorso della maratona si dipana su uno spesso strato di ghiaccio e neve crostosa che si sposta sotto i piedi, a temperature che oscillano tra -25° C e -41° C, e prevede cinque giri di un lungo anello per complessivi 42,195 km. Può sembrare assurdo dover ripetere lo stesso giro più volte, ma il motivo è presto detto. Da queste parti aprire una nuova pista è un’impresa ardua e inoltre le zone del campo già spalate impattano meno sulle gambe. Ma soprattutto, in caso di necessità, un percorso di questo tipo mantiene i partecipanti a distanza ravvicinata dal campo, un dettaglio rassicurante. Anche trovarsi molto più avanti, o più indietro, rispetto al gruppo degli altri runner può diventare snervante. Al Polo Nord, eventualità come perdere un guanto o bucare il ghiaccio con un piede possono avere conseguenze pesanti, se non addirittura letali.
La maratona prese il via senza troppo clamore e senza spettatori, ad eccezione delle guardie armate russe incaricate di tenere lontani gli orsi polari; il silenzio era amplificato dall’effetto insonorizzante del ghiaccio. Mi sintonizzai sui suoni dell’Artico: la neve che scricchiolava sotto i piedi, la superficie solida che cedeva leggermente sotto il peso dei miei passi.
Il secondo giro si corre sui solchi creati al primo passaggio. Il mio obiettivo era stabilire un record e cercavo di mantenermi al comando. Spesso per superare gli altri ero costretto a uscire dai solchi, avventurandomi su tratti di neve alta fino alle ginocchia.
Giro dopo giro il tracciato si fece sempre più battuto e i chilometri passarono veloci: senza rendermene conto avevo già percorso 18 miglia (30 km). Una volta superata la sensazione di freddo (credetemi, succede) comincia il bello. Con i due terzi della gara nelle gambe cominciai a sentire il bisogno di altro carburante. Mi fermai per assumere un integratore in gel, ma avevo addosso talmente tanti strati che prima di riuscire a portarmelo alla bocca passarono alcuni minuti preziosi. Cercai di allentare la maschera, ma non si mosse: mi si era congelata addosso per via del sudore e del fiato condensato. Le ciglia congelate mi annebbiavano la vista e sollevare anche solo il più piccolo strato dalla pelle mi provocava dolore. Non avevo altra scelta se non infilarmi per qualche minuto dentro un ristoro per riscaldarmi.
Come rimisi piede sulla neve fui accecato dal bagliore, ma la vista si normalizzò nei giri finali. Sebbene fossi anestetizzato, sorrisi nel momento in cui imboccai l’ultimo terzo della gara, arrancando lungo i solchi ormai perfettamente tracciati.
Con un tempo ufficiale poco oltre le quattro ore vinsi la maratona, la più lenta della mia carriera. Il secondo arrivò un’ora dopo di me. Comprensibilmente non esiste un tempo limite per una gara come questa: se sei arrivato fin qui (e hai pagato per farlo), ti lasciano correre a oltranza, pur entro certi limiti. Il mio tempo fu comunque un record, ma dell’Artico mi rimase soprattutto il ricordo di un paesaggio che non dimenticherò. La maratona del Polo Nord ha cambiato anche il mio atteggiamento verso il freddo: nemmeno tre anni più tardi ho partecipato all’Antarctica Marathon.
Fonte: lonelyplanetitalia.it- Michael Wardian