SITUATO SU UN TRATTO DI COSTA MOZZAFIATO IN PATAGONIA, CILE, LA RISERVA NATURALE MARI MARI È UNO DEI PRIMI ECO RESORT DI LUSSO DELL’AMERICA DEL SUD
Questo spettacolare paradiso naturale fa da cornice a esplorazioni a terra o in mare, a piedi o a cavallo, in kayak, in barca o in elicottero, con binocoli, scarponcini da trekking o boccagli, offrendo allo stesso tempo il comfort e la squisita cucina che ci si aspetta da un resort a cinque stelle. Con la sua posizione idilliaca in 3600 ettari di terreno lussureggiante, 20 chilometri di costa incontaminata del Pacifico, sei ville private, cucina squisita ed esperienze su misura, Mari Mari porta l’esperienza della Patagonia a un livello completamente nuovo.
Le attività offerte all’Hotel Mari Mari raggiungono il perfetto equilibrio tra natura, avventura e culture ancestrali locali. Osserva i delfini, le balene e i pinguini nella baia e osserva il puma sfuggente e il cervo pudú nei boschi. Immergiti nella storia e nelle tradizioni locali, scopri le meraviglie culinarie del sud del Cile ed esplora ciascuno degli habitat che creano un’immensa biodiversità unica per Mari Mari. Goditi una nuotata sotto le stelle dopo una giornata di escursioni. Scendi in acqua a bordo di una delle barche di Mari Mari, o semplicemente rilassati con un buon libro nel Lodge o nella sontuosa spa e area benessere. Qualunque siano le tue preferenze, le guide residenti daranno la loro esperienza e profonda conoscenza di questo ecosistema unico per curare l’esperienza perfetta per ogni ospite.
Un soggiorno al Mari Mari è tanto confortevole quanto avventuroso. Abbracciando la bellezza di questa costa della Patagonia, ognuna delle sei ville sull’oceano – tra cui un Master Residence – offre il massimo comfort e privacy. Splendidamente arredate con legni nobili e pietre locali, con tocchi di tessuti e opere d’arte locali, il loro design pulito ed elegante si fonde perfettamente con l’ambiente naturale incontaminato. Mentre ciascuna delle ville private offre le stesse viste spettacolari, le loro diverse dimensioni e capacità ti consentono di scegliere la villa perfetta per adattarsi alle dimensioni del tuo gruppo.
In piedi sopra la spiaggia principale dell’hotel, il Lodge & Spa di 1800 m² ospita una sala da pranzo con vista sull’oceano, tranquille aree salotto, un bar, una piscina all’aperto e una zona barbecue all’aperto. Al secondo piano, un’area benessere e spa offre una vasta gamma di trattamenti progettati per rivitalizzare, rilassare e coccolare il corpo, mentre sessioni di yoga e meditazione rilasseranno la mente per raggiungere un livello di equilibrio per cui tutti si impegnano.
L’esperienza culinaria di Mari Mari è una celebrazione degli ingredienti e delle tradizioni della regione. Erbe curative, spezie delicate e verdure fresche di giardino di stagione provengono direttamente dall’orto biologico della proprietà fino alla tua tavola. La posizione costiera consente al team di accedere al pesce e ai frutti di mare appena pescati che ispirano molti dei piatti del menu, mentre carne e pollame provengono localmente e allevati naturalmente. Vieni e goditi la cena al tavolo del Lodge o guarda il tramonto mentre gli chef preparano un pasto privato nella tua villa sull’oceano. Un’ampia lista di vini significa che troverai sempre l’abbinamento perfetto per il tuo piatto.
Con l’aeroporto internazionale di Puerto Montt a soli 80 minuti di auto o 20 minuti di volo in elicottero, Mari Mari è altamente accessibile.
Fonte: xoprivate.com
Il complesso funerario di Djoser, la celebre piramide a gradoni della necropoli di Saqqara, in Egitto, è considerata la più antica al mondo.
È stata costruita nel 2630 avanti Cristo come luogo di riposo del re Djoser, fondatore del Vecchio Regno. E custodisce al suo interno «innovazioni» architettoniche realizzate per la prima volta come le colonne, il capitello a foglie pendule (mai più usato) e i grandi padiglioni cerimoniali.
L’edificio a gradoni, in pietra calcarea, aveva originariamente un’altezza di 62 metri ed una base di 125 metri per 109.È stato rimaneggiato più volte nel tempo e la struttura si è lentamente sgretolata. Ecco perché negli ultimi 90 anni è stata prima messa in sicurezza e ora restaurata per essere finalmente aperta al pubblico, per la prima volta.
Fino agli Anni 30 questa piramide è stata accessibile, ma non di certo ai turisti. Poi i problemi di sicurezza avevano reso impossibile anche il lavoro dei ricercatori, da sempre incuriositi da questa piramide «primordiale», un prototipo della scalata vero il Sole del defunto sovrano, da cui poi si sono evolute le piramidi a fasce lisce che tutti conosciamo.
«Siamo ancora oggi stupiti di come siano stati in grado di creare questa struttura, che è rimasta in piedi per 4.700 anni», ha detto il ministro egiziano delle antichità, Khaled al-Anani, ricordando che la piramide ha resistito persino ai terremoti.
Ora l’ingresso è sicuro, e tutte le aree possono essere visitate, inclusa la camera mortuaria del faraone che si trova nel cuore della piramide, a trenta metri di profondità, dove è custodito con un grande sarcofago vuoto, la cui mummia non è stata ancora trovata.
Fonte: lastampa.it
Così lo definì lo storico greco Erodoto nel V secolo a.C., sottolineando il grande ruolo che il Nilo ha avuto nell’evoluzione dell’Egitto
Da 30 milioni di anni il Nilo fluisce placido attraversando il continente Africano fino al mar Mediterraneo, ma è soprattutto nel territorio egiziano, che si comporta da vero protagonista, caratterizzandone la storia sin dai tempi antichi.
Un legame stretto tra il fiume e le civiltà che si svilupparono lungo le sue sponde, grazie alla generosità delle acque, che in passato, dopo aver regolarmente inondato i terreni aridi, restituivano il prezioso limo, vigoroso fertilizzante, fondamentale per l’agricoltura e il sostentamento.
Il Nilo si forma con l’unione di due principali affluenti: il Nilo Bianco, che nasce, convenzionalmente, dal lago Vittoria, in Uganda, e il Nilo Azzurro, generato dal lago Tana in Etiopia. I due rami si fondono a Khartum, dove inizia un percorso ostacolato soltanto da sei impetuose cateratte. L’ultima è quella di Aswan, che si arricchisce della vivacità intrepida delle sue acque impreziosite da piccoli isolotti lussureggianti e da rocce di granito rosa.
Il Nilo si congiunge al mare, dopo aver donato vita al deserto, e lo fa con uno spettacolare delta, che connette il Paese al resto del mondo sin dall’antichità.
L’importanza del fiume raggiunse il suo apice nell’antico Egitto. Era associato al dio Hapy, che incarna la fecondità della terra e garantisce l’abbondanza dei raccolti, simbolo del rinnovamento della vita dopo ogni piena.
Il Nilo ha visto navigare innumerevoli barche sacre, tanto care ai sacerdoti Egizi dediti alla celebrazione delle amate divinità. Oggi, risalirne un tratto a bordo di una motonave o di una tipica imbarcazione fluviale, farsi inebriare dalla leggera brezza, che ne accarezza la superficie blu cobalto, e raggiungere i siti archeologici adagiati lungo le sue rive, è fare un viaggio a ritroso nella storia, intrisa di miti e leggende memorabili, sempre pronta a svelare nuovi segreti a chi è desideroso di ascoltare.
Sua Maestà il Nilo: la sua linfa vitale scorre uguale da tempo immemore, infonde vita, ispira e seduce, eppure,
ogni goccia non è mai la stessa!
Foto: Alessandra Fiorillo
Nel 1820, due spedizioni rivali partirono alla scoperta dell’Antartide. Ma solo una riuscì ad arrivare per prima.
A duecento anni dalla scoperta dell’Antartide, il continente ghiacciato è ancora conosciuto come un centro di esplorazione scientifica e un luogo di avventura e ghiacci pericolosi. Ma chi fu a scoprire il nuovo continente? Dipende da cosa si intende per “scoprire”.
Il fatidico avvistamento potrebbe essere attribuito a una spedizione russa il 27 gennaio 1820 o a una britannica appena tre giorni dopo.
All’inizio del XIX secolo, gli esploratori erano andati in cerca di un grande continente meridionale che chiamavano Terra Australis Incognita (“terra meridionale sconosciuta”). Si pensava che questa vasta massa terrestre “controbilanciasse” le terre dell’emisfero boreale. Ma i primi tentativi di trovare il continente erano falliti. Il capitano James Cook lo cercò per tre anni durante il suo secondo viaggio dal 1772 al 1775. La spedizione di Cook e dei suoi uomini arrivò al circolo polare antartico, ma l’esploratore dovette invertire la rotta dopo non essere riuscito a trovare il continente.
Ma Cook era convinto che ci fosse molto di più. “Sono fermamente sicuro che ci sia un tratto di terra vicino al Polo, che è la fonte della maggior parte del ghiaccio che arriva in questo vasto Oceano Meridionale” scrisse alla fine della spedizione, ma “Il rischio che si corre esplorando una costa in questi sconosciuti mari ghiacciati è così alto, che posso dire con franchezza, che nessun uomo potrà mai avventurarsi più lontano di quanto abbia fatto io e che le terre che potrebbero trovarsi a Sud non saranno mai esplorate.” Come poi si è scoperto, Cook era passato a soli 128 km dalla costa del continente, a un certo punto del suo viaggio.
I viaggi di Cook spronarono altri esploratori, ma nessuno ebbe successo e la ricerca della “terra meridionale sconosciuta” fu considerata impossibile. Poi, la ricerca dell’Antartide tornò in auge grazie a rivalità internazionali e ai potenziali profitti ricavati dalle pelli di foca cacciate in quelle acque gelide. La competizione globale per il dominio del territorio e delle relative risorse economiche spinse verso l’Antartide spedizioni di esploratori da Russia, Inghilterra e Stati Uniti.
Nel 1819 la Russia incaricò Fabian von Bellingshausen di superare il punto più meridionale raggiunto da Cook. Il 27 gennaio 1820 il capitano Bellingshausen avvistò quella che probabilmente era una prominenza del territorio antartico nota oggi come la Terra della Regina Maud. Non lo sapeva, ma aveva compagnia: tre giorni dopo, l’ufficiale navale britannico Edward Bransfield avvistò la punta della Penisola Antartica.
UNO STRANO FENOMENO IN ANTARTIDE
Sebbene von Bellingshausen sia stato tecnicamente il primo ad avvistare il continente sconosciuto, scrive lo storico David Day, il suo successo è rimasto nascosto per decenni a causa di una traduzione errata del suo giornale di bordo che ha portato gli storici a ritenere che in realtà non avesse mai avvistato la terra. Gli americani non erano molto lontani: John Davis, cacciatore di foche ed esploratore, fu il primo a mettere piede sulla terra antartica nel 1821.
La corsa per trovare l’Antartide innescò la competizione per localizzare il Polo Sud e scatenò un’altra rivalità. L’esploratore norvegese Roald Amundsen lo raggiunse il 14 dicembre 1911. A distanza di poco più di un mese, lo trovò anche Robert Falcon Scott, il cui viaggio di ritorno ebbe però conseguenze disastrose: l’intero equipaggio morì e la spedizione è tuttora considerata un fallimento.
Tuttavia, quando Amundsen parlò alla Royal Geographic Society in occasione di una cerimonia in onore del suo successo, scrive lo storico Edward J. Larson, i partecipanti applaudirono per i cani dell’esploratore, ma non per lui. L’Antartide è gelida, ma le passioni che alimenta nel cuore degli esploratori e dei loro sostenitori sono davvero infuocate.
Fonte: nationalgeographic.it
VISITA DEI 6 VILLAGGI MAGICI DI QUERÉTARO
Querétaro vi mette di buon umore, con quattro Città Magiche nella Regione del Vino e due nella Sierra Gorda, Querétaro vi offre sei luoghi speciali che brillano di luce propria, ma con la stessa magia e lo stesso calore che contraddistinguono la loro gente e le loro tradizioni. Nonostante sia il sesto più piccolo stato del Messico, Querétaro è tra le dieci entità con le Città più magiche, appena sotto lo Stato del Messico, Puebla, Jalisco, Michoacán e Coahuila
Dalla città di San Sebastian Bernal e la sua mistica Peña, ad Amealco e la bambola artigianale Otomí Lele, i Villaggi Magici di Queretaro vi conquisteranno e vi faranno tornare a visitarli. Venite a conoscerli!
Bernal: a Bernal è necessario provare senza dubbio “las gorditas” e “le elotes”. Raggiungere a piedi la Peña – il terzo monolito più grande del mondo -, visitare i suoi musei (tra cui il Museo del Dolce); nei suoi dintorni ci sono attività divertenti come safari, equitazione e zip-lining.
Cadereyta: Qui si trovano due dei più importanti vivai del continente: La Quinta Fernando Schmoll e l’Orto Botanico Regionale, dove si effettuano ricerche su cactus e piante endemiche. Visitate Cadereyta de Montes e vivete il folklore di una Città Magica che vi affascinerà.
Jalpan: nel cuore della Sierra, il suo clima tropicale e la gentilezza della sua gente vi accoglierà a braccia aperte. Visitate le missioni, visitate il museo regionale, fate un’escursione, scoprite la Presa in bicicletta o in kayak, e provate la “cecina”, “l’acamaya” e lo “zacahuil”, per scoprire il sapore dei fuochi di montagna.
Tequisquiapan: è il luogo ideale per una pausa ed è anche il punto di partenza per la regione vinicola. A Tequis è necessario camminare attraverso le sue strade coloniali, mangiare e trascorrere il pomeriggio nei suoi pittoreschi ristoranti e acquistare prodotti artigianali nei suoi mercati. La sua area termale, il volo in mongolfiera, le miniere, l’equitazione e i caseifici, sono il pretesto ideale per prolungare la passeggiata.
San Joaquín: il suo piccolo villaggio di tetti rossi vi accoglie tra le montagne della Sierra Gorda. Famoso per il suo Huapango Huasteco National Dance Contest, San Joaquin può essere visitato tutto l’anno. La sua zona archeologica di Ranas parla e completa il suo passato minerario, mentre nella foresta ci si diverte a fare escursioni a piedi e le notti intorno al falò. Da non perdere la visita alla Grutas de Los Herrera per ammirare stalattiti e stalagmiti e degustare, tra le altre delizie, il suo liquore di mele.
Amealco: è speciale per i suoi paesaggi boscosi che invitano a dormire in chalet e godere della natura. Passeggiate lungo la piazza principale: a lato del giardino principale si trova la Parrocchia de Santa María, considerata una delle più belle e più grandi di tutto lo stato. Ammirate le bambole artigianali del Museo delle bambole e compratene una come ricordo. Non andate senza provare la “talpa guajolote” o le “carnitas” del Mercato Comunale.
Fonte: Grupo Meca – Riccardo Ariello
L’Orologio Astronomico di Praga rappresenta uno stupefacente esempio di ingegno e arte medievale. Esso è una delle principali attrazioni della città di Praga, capitale della Repubblica Ceca, e ogni giorno chiama a sé centinaia di curiosi. Riguardo la sua costruzione esistono numerose leggende, care ai praghesi. Una delle più famose è narrata dallo scrittore ceco Alois Jirásek.
Jirásek narra che un mastro orologiaio, Jan Růže, conosciuto come Hanuš, fu selezionato tra molti altri artigiani dal consiglio municipale per creare un dispositivo unico nel suo genere, che non avrebbe dovuto agire solo come orologio, ma avrebbe dovuto incorporare numerose altre funzioni.
Soddisfatti pienamente della creazione di Hanuš, tuttavia, i consiglieri erano preoccupati del fatto che egli avrebbe potuto replicare il progetto per committenti di un’altra città. Dopo numerosi elucubrazioni su come scongiurare il problema, giunsero infine a un infelice verdetto.
I consiglieri assoldarono alcuni uomini che, dopo aver fatto irruzione nella casa dell’orologiaio, gli ferirono gli occhi con un pezzo di ferro, portandolo alla cecità
Nonostante ciò, Hanuš riuscì a capire chi fossero gli autori e i mandanti di tale gesto. Per vendicarsi, per mezzo dell’aiuto di un suo apprendista, si recò presso la Torre della Città Vecchia e manomise il meccanismo, facendolo bloccare.
La leggenda di Jirásek termina raccontando che ci vollero ben cento anni prima che l’orologio fosse riparato e riportato alle sue originali funzioni.
Come molte altre leggende sullo straordinario orologio, quella di Alois Jirásek attribuisce la manifattura dell’orologio all’artigiano sbagliato. Stando a recenti studi e scoperte, il vero artefice del magnifico meccanismo fu l’artigiano Mikuláš of Kadaň. Egli ideò il progetto nel 1410, aiutato da un professore di matematica e astronomia dell’università di Charles, Jan Šindel. I primi cenni, presenti nella cronaca del tempo, vengono fatti risalire al 9 Ottobre 1410.
L’orologio astronomico di Praga è tra i più celebri al mondo. Oltre che il terzo orologio astronomico più antico, è anche il più antico ancora funzionante, con oltre 600 anni di servizio. La sua peculiarità e la sua origine sono alcune delle ragioni per cui un folto pubblico si riunisce ogni giorno, allo scoccare dell’ora di fronte alla Torre del Vecchio Municipio nella Piazza della Città Vecchia, dove è situato l’orologio, in attesa dell’inizio dello spettacolo in movimento (lungo 45 secondi) e di scoprire come appaia lo spettacolo del prezioso meccanismo.
Quando l’ora scocca, la parte superiore dell’orologio apre le sue finestrelle e mostra i 12 apostoli in una processione circolare. Allo stesso tempo si azionano le altre sculture lignee che contornano l’orologio. Ai lati del quadrante una delle figure in movimento, la morte, regge una clessidra nelle mani. Un’altra figura, posizionata dal lato opposto, rappresentante la vanità, ha uno specchio in mano. Altre figure, come l’Astronomo, il Filosofo o il Cronista, rimangono immobili.
Alcune di queste sculture sono riproduzioni di quelle originali, poiché queste vennero pesantemente danneggiate, alcune distrutte, dai soldati tedeschi che bombardarono la città alla fine della Seconda Guerra Mondiale, tra il 7 e l’8 Maggio 1945.
L’orologio, dopo un grandioso intervento di restauro, riprese a funzionare nel 1948
Il quadrante astronomico è il più antico di tutti i componenti dell’orologio e costituisce buona parte del suo fascino. La cura e la precisione di questa componente mettono in luce l’interesse della popolazione di epoca medievale per l’osservazione dell’universo e della volta celeste.
La Terra è posta al centro di esso. Il colore blu nel quadrante rappresenta il cielo oltre l’orizzonte, mentre la controparte brunastra rappresenta il cielo al di sotto di esso. Il quadrante è formato da un anello zodiacale, uno esterno roteante, da un’icona rappresentante il Sole e da una rappresentante la Luna. Le lettere segnate in latino indicano quale lato sia l’est e quale l’ovest; nord e sud sono indicati dalle parole latine ‘aurora’ e ‘ortus’. Un cerchio zodiacale rappresenta le stelle della volta celeste, e scorre in armonia con le altre componenti.
I tre assetti del quadrante possono misurare tre diversi orari. Il primo è quello denominato ‘italiano’, o ‘vecchio orario ceco’. L’orario dell’Europa centrale è segnato dalla lancetta decorata col Sole.
Il terzo è il più particolare di tutti, poiché misura l’orario Boemo, o orario Arabo, dove l’ora è determinata soltanto dall’alba al tramonto. Durante l’estate, la giornata è più lunga, in inverno più corta.
L’orologio astronomico di Praga è l’unico al mondo che mostra l’antica ora Boema
Comparato a quello astronomico, il quadrante del Calendario ha meno funzionalità, ma è comunque di grande fascino. Al suo centro, è illustrato il simbolo della Città Vecchia di Praga e l’anello esterno reca l’indicazione di ogni giorno per tutto l’anno. Esso mostra il giorno della settimana e la sua posizione nella settimana, nel mese e nell’anno.
Poiché spesso il meccanismo dell’orologio astronomico presentò dei malfunzionamenti, esso subì numerosi interventi di manutenzione. Tuttavia, quasi nessuno era in grado di sistemarlo, e quando, nel tardo XVIII secolo, un nuovo problema si presentò ai meccanismi, gli ufficiali del posto considerarono persino di sostituirlo con un nuovo elemento, di più semplice fattura.
Fortunatamente ciò non accadde ma, per lunghi periodi, l’orologio smise di scandire le ore della città di Praga senza che nessuno fosse in grado di mettervi mano. Uno dei più lunghi lavori di restauro avvenne molte decadi più avanti, quando attorno al 1880 uno dei dispositivi dell’orologio, il quadrante del calendario, venne sostituito da una copia (l’originale è conservato presso il museo della città di Praga).
Riprendendo le forme e le caratteristiche degli antichi astrolabi, strumenti usati in epoca medievale per lo studio dell’universo, l’orologio di Praga è una vera opera d’arte e un vero gioiello. Oggetto all’avanguardia per i tempi in cui fu creato, ancor oggi desta meraviglia tra i cittadini e i turisti, i quali, nonostante gli impegni della giornata, trovano sempre qualche istante per ammirarne la bellezza e lo spettacolo in movimento.
Fonte: vanillamagazine.it – Cecilia Fiorentini
Una nuova ricerca firmata Nasa è riuscita a datare il cratere Yarrabubba in Australia: 2 miliardi e 229 milioni di anni, dunque più antico del Vredefort Dome sudafricano, fino a oggi detentore del primato. L’impatto potrebbe anche essere legato alla fine dell’era glaciale del paleo-proterozoico.
Nell’entroterra australiano, nella parte occidentale dell’isola, si trova lo Yarrabubba crater, un grande cratere da impatto ampio quasi 70 chilometri. A prima vista non è semplice riconoscerlo: i suoi bordi sono completamente erosi dagli agenti atmosferici e i movimenti tettonici hanno modificato la conformazione geologica della regione facendo scomparire la classica depressione circolare. La presenza di un cratere però si può rilevare anche in altri modi meno diretti, come dalla presenza di alcuni tipi di fratture nelle rocce o di impatti, rocce modificate o alterate dall’energia dell’impatto meteorico.
I ricercatori dell’università australiana di Curtin e del Johnson Space Center della Nasa hanno sfruttato proprio rocce di questo tipo per ottenere i dettagli sull’epoca dell’impatto. In particolare, si sono concentrati sui minerali di zircone e monazite che sono stati fusi dall’impatto e in seguito sono ricristallizzati alla base del cratere. Analizzando questi minerali, e in particolare i loro contenuti di uranio e piombo, è stato possibile risalire all’età in cui ha avuto luogo tale processo di ricristallizzazione.
La ricerca, pubblicata su Nature Communications, stabilisce che il cratere di Yarrabubba debba essere a tutti gli effetti riconosciuto come il più antico sulla Terra, almeno tra quelli conosciuti. Avrebbe infatti 2 miliardi e 229 milioni di anni – dunque sarebbe circa 200 milioni di anni più anziano del cratere sudafricano di Vrederfort, che fino a oggi deteneva il record.
C’è di più. I grandi impatti meteorici possono avere un ruolo importante nella storia climatica del nostro pianeta e dei suoi effetti sulla biosfera, come nel famoso caso dell’estinzione di massa del Cretaceo-Paleocene (quella dei dinosauri), legata probabilmente all’impatto che ha generato il cratere di Chicxulub, in Messico, e alle sue conseguenze sul clima. L’età del cratere di Yarrabubba coincide con la fine delle glaciazioni paleo-proterozoiche, avvenuta attorno a 2 miliardi e 225 milioni di anni fa.
I ricercatori hanno simulato quali sarebbero stati gli effetti dell’impatto di Yarrabubba se il sito fosse stato ricoperto di ghiacci, cosa possibile durante un’era glaciale. Il risultato è che, se i ghiacci australiani fossero stati spessi tra i 2 e i 5 chilometri, un impatto in grado di dare origine a un cratere di 70 chilometri potrebbe aver generato l’emissione in atmosfera di oltre 200mila miliardi di chili di vapore acqueo. Parte di quest’acqua sarebbe subito riprecipitata al suolo senza influire in alcun modo sul clima globale. Un’altra parte potrebbe invece essere rimasta a lungo in atmosfera ed aver contribuito a un riscaldamento del clima per effetto serra, e quindi alla fine dell’era glaciale.
Fonte: media.inaf.it – Luca Nardi
Tra pareti vertiginose si nasconde
una meravigliosa valle che profuma di rose
Kellat M’Gouna, un villaggio fortificato incastonato tra gole profonde con pareti a strapiombo che si affacciano su una vallata lussureggiante, custodisce i segreti dei maestri profumieri della Provenza.
Situato a 1500 metri di altitudine, vicino alla ben nota Boumalne Dadès, la cittadina è attorniata da molte kasbah e da appezzamenti verdi di terra coltivata. Stupendo è il contrasto cromatico tra il verde vivace dei campi, il rosso tipico della terra utilizzata per costruire le abitazioni e i riflessi luccicanti dell’acqua dei fiumi, che alimentando oasi rigogliose, scivolano silenziosi tra le rocce.
Il deserto sembra lontano!
Nelle valli lungo le rive del Dadès e del M’Goun, la rosa centifolia, conosciuta come Rosa di Maggio, ha trovato l’ambiente ideale per crescere e prosperare. Si ritiene che il fiore provenga dall’antica Persia e sia giunto nelle valli del sud del Marocco grazie al transito delle carovane commerciali che in passato univano l’Oriente con il Maghreb.
Con l’arrivo della primavera, le valli si riempiono di cespugli di rose e si tingono di colore e profumi inebrianti. Una fragranza intensa si diffonde nell’aria e avvolge tutto ciò che sfiora.
Lunghe siepi accolgono piccoli e delicati boccioli che svelano la loro bellezza tra minacciosi rami costellati da spine. Morbide corolle che, nella loro breve vita, restituiscono un aroma penetrante.
Prima che il sole si levi alto in cielo, le rose, ancora aperte durante il fresco della notte, diffondono la loro essenza e si consegnano nelle abili mani delle donne a cui è affidato il compito di raccoglierne i preziosi petali. Un piacevole mormorio risuona tra i cespugli accesi dai primi raggi e si percepisce la gioia delle lavoratrici nell’essere circondate da una rara bellezza naturale.
Quasi un secolo fa, la coltivazione della rosa venne incentivata grazie ad alcuni profumieri francesi che trasferirono nel territorio le loro conoscenze per avviare i processi di essiccazione e distillazione delle essenze utilizzate per la produzione di profumi, oli, creme, saponi e cosmetici, nonché della famosa acqua di rose.
Decine di migliaia di fiori colti manualmente, petalo dopo petalo, con attenzione e delicatezza, per rendere felici altre donne che, spesso ignare del lavoro necessario per ottenere tali raffinati prodotti, cospargeranno sui loro corpi un concentrato di amore racchiuso in ogni singola goccia.
Un immenso giardino tropicale degno del più remoto dei paradisi, punteggiato da milioni di sfumature di vegetazione, tra spruzzi di verde brillante e fiori colorati e profumatissimi. Dall’alto, sembra di osservare un arcobaleno che ha distribuito le sue tinte in un fertile territorio, diviso in piccoli fazzoletti di terra. Le Isole Australi rappresentano la vacanza into the Wild di chi vuole scoprire una Polinesia Francese diversa, fuori dal convenzionale, o almeno desidera associare a un soggiorno tutto lusso e mare color Tiffany magari tra le Isole della Società e le Tuamotu, qualche giorno di full immersion nella natura, lontano anni luce dalla vita moderna.
Cinque angoli di flora e fauna in trionfo, ognuno con uno specifico profilo paesaggistico e un passato da scoprire. Ecco, dunque, che Tubuai fu la prima tappa degli ammutinati del Bounty, Raivavae è considerata la Bora Bora dell’arcipelago e come la precedente ha una barriera corallina più larga e più adatta a qualche ora di relax in spiaggia, Rurutu è famosa per il passaggio delle balene e Rimatara spicca per la creatività degli abitanti che con le foglie di Pandanus creano stupende borse, panieri, ventagli e corone. E poi c’è la remota Rapa, difficile da raggiungere, perché i battelli passano soltanto una volta al mese. Ce ne sono ancora due disabitate: l’Isola Maria, a nord-ovest e Marotiri a sud-est, costituita da un gruppo di scogli. In tutto 1300 km da un’estremità all’altra. In questo spazio di mondo a cavallo del tropico del Capricorno, non bisogna aspettarsi hotel di lusso: la vita scorre lenta e semplice e si può soggiornare in modeste pensioni gestite però da polinesiani dal grandissimo cuore e dall’allegria travolgente, che sanno sempre conquistare il viaggiatore più intrepido che le sceglie.
Un orizzonte di specie floreali nell’ultimo territorio polinesiano esplorato dall’uomo
La regina incontrastata delle specie, in Polinesia Francese, resta il tiarè (Gardenia Tahitensis) con la sua essenza che ricorda il gelsomino e il suo colore bianco candido che illumina tutto. Da queste parti è onnipresente: sulla pelle ambrata delle donne locali o sulle ghirlande dove vengono infilati i fiori come splendide perline naturali. Tra i suoi cespugli perfetti per terreni umidi, caldi, fertili e vulcanici come quelli di questi luoghi, la pianta non è certo l’unica a catturare lo sguardo. Il frangipane ha un cuore colorato di rosa, di giallo o di arancione, mentre l’Hibiscus ha diverse gradazioni cromatiche, ma nella sua varietà selvatica regala persino un effetto speciale sbalorditivo: al mattino si sveglia di colore giallo e quando cade dall’albero comincia a scurirsi fino a diventare rosso scuro. Le ragazze usano i suoi pistilli come rossetto e i suoi petali come salviettine umidificate profumate per toglierlo. Tra queste grandi protagoniste, si scorgono milioni di varietà super intense di flora rarissima e talmente perfetta da apparire incredibile. A Tahiti, ad esempio, si trova l’orchidea più piccola del mondo, così come un curioso tipo di fiore che ha soltanto la metà della corolla.
Tahiti: tra foresta pluviale e una città moderna e vivace
Di solito è una destinazione di passaggio per spostarsi in giro tra le meraviglie del posto. Tuttavia, Tahiti ha una sua grande anima che comincia dal famosissimo mercato di Papeete, trionfo di parei colorati, perle nere tipiche e ogni prodotto alimentare consumato in Polinesia Francese. Apre all’alba ogni giorno ed è una destinazione imprescindibile, così come le sue spiagge di sabbia nera, le cascate, le lagune e le escursioni nell’entroterra alla ricerca di fiori rari con vista su due vulcani estinti. La più grande terra emersa di questo meraviglioso arcipelago dell’Oceania, ha una forma che ricorda il numero otto ed è suddivisa in Tahiti Nui, la più vasta e Tahiti Iti (percorribile in parte e a piedi). Fu esplorata dal capitano James Cook nel XVIII secolo e immortalata dall’artista francese Paul Gauguin e chi si ferma a Papeete può godere anche di un bel porticciolo dove la sera ci si può fermare per un pasto veloce alle tipiche roulotte. Di giorno, invece, nonostante possa risultare un po’ caotica rispetto alle super tranquille altre isole, ci si può perdere tra le sue stradine, i suoi angoli di verde o fermarsi alla Cattedrale di Notre Dame. Per dormire le soluzioni sono tante, ma per chi non si accontenta di modeste pensioni può essere un’ottima idea pernottare al Tahiti Pearl Beach Resort, immerso in giardini tropicali lungo una splendida spiaggia di sabbia nera. L’unico neo è la lontananza dal centro di Papeete che si raggiunge con circa 15 minuti di taxi, problema risolvibile grazie alla presenza di navette due volte al giorno, gratuite, dalla stessa struttura alberghiera.
Rurutu, l’isola magica dalle spettacolari grotte
Dopo un comodo volo di Air Tahiti (la compagnia vi arriva 4 volte a settimana), accolti da collane di fiori e abbracci tanto calorosi da sentirsi in visita da parenti appena conosciuti, si giunge nel regno delle balene e delle grotte. Il passaggio delle prime è già avvenuto e riguarda, più o meno, il periodo che va da agosto a ottobre. Il clima, come in tutte le Australi è più fresco e i suoi tremila abitanti circa, si conoscono tutti. Questo è il trionfo di grotte calcaree dove si sono stabiliti i primi abitanti e che si possono scalare e di antichi marae (luoghi sacri) che raccontano di un lungo passato, anche se queste restano le ultime isole della Polinesia a essere state colonizzate. L’isola di Rurutu è circondata da barriera corallina che, però, in pochi tratti si allontana abbastanza dalla costa, per cui un bagno qui è sicuramente stupendo ma può essere meno suggestivo rispetto a luoghi come Fakarava, Maupiti o Bora Bora. Non mancano, dei piccoli bacini naturali, ma non si può parlare di laguna. Ci sono però delle belle spiagge soprattutto a sud come Punta Arei e una serie infinita di scogliere ma anche montagne e pianure cariche di piante, che si possono comprendere soltanto avendo la fortuna di giungere da queste parti. La capitale delle Australi vanta 3 villaggi principali: la capitale Moerai, Auti e Avera in un mix di piantagioni dell’amatissimo taro (un tubero dai riflessi violacei che rappresenta un po’ il pane locale), ma anche manioca e litchi o l’immancabile latte di cocco presente in ogni deliziosa preparazione (poisson cru in testa). Ogni famiglia possiede il proprio spazio di terra coltivabile e in certi momenti sembra di tornare indietro nel tempo a quando Cook giunse al largo dell’isola nel 1769, anche se non riuscì a sbarcare. 36 km di perimetro in tutto sui quali spiccano grotte cariche di miti e leggende. Si dice che siano sorte per vegliare sull’anima dell’isola, a cominciare dalla più grande che è Ana A’eo, ricca di vegetazione all’interno e di impressionanti stalattiti e stalagmiti calcaree. In parte dovevano essere utilizzate anche per i riti dei defunti e comunque hanno un alone sacro che si percepisce durante l’impegnativa passeggiata di oltre due ore che permette di visitarle, attraversando anche un tratto di mare (quindi portate nello zaino le scarpette per le rocce). A due minuti dall’aeroporto, c’è la pensione Vaitumu, a gestione familiare, semplice ma graziosa. Sette bungalow in pietra corallina, una piscina e un ristorante che offre cucina internazionale e locale. Il wifi è nelle aree comuni.
Rimatara, la tranquilla patria del pappagallo rosso
Rimatara è l’isola dei silenzi e della pace, interrotta solo dal canto perenne di tantissimi galli e dal cinguettio di diverse specie di uccellini. Uno su tutti si trova soltanto in questo angolo di Polinesia ed è il pappagallo rosso, bellissimo con le sue sfumature colorate. A un’ora e mezza da Tahiti, in un tratto di terra piuttosto isolato dove l’aeroporto è stato aperto nel 2007, ecco una zona dalla forma rotonda dove si incrociano tradizionali piroghe, spiagge deserte di sabbia bianca e rocce vulcaniche, pochissimi negozi e qualche auto. In tutto gli abitanti sono circa 900 e quasi tutti imparentati in qualche modo. Non è raro, passando davanti a qualche abitazione, scorgere le donne che lavorano le foglie di pandanus, una pianta molto resistente che essiccata permette di ottenere vere opere d’arte. Il turismo è agli inizi ma chi adora vivere in totale contatto con la natura e magari dedicarsi al birdwatching o alla realizzazione di oggetti con il pandano intrecciato, si troverà in paradiso. Attenzione, però, chi si aspetta catene a cinque stelle resterà sorpreso. Qui sorgono solo piccole soluzioni piuttosto spartane, come la Pensione Ueue, completamente immersa nel verde e gestita dal sindaco e dalla sua vulcanica moglie. La Perruche Rouge, invece, si trova in collina. In entrambi i casi, grazie ai proprietari sarà molto facile scoprire il vero spirito dell’isola e come vivono gli abitanti tra maiali, capre, galline, la coltivazione tra i campi e l’immancabile messa la domenica tutti insieme.
Fonte: ilmessaggero.it – Francesca Spanò
Sconfinati al limite dell’inquietante, obbligano a lunghe percorrenze e lasciano l’amaro in bocca per le troppe cose che non si è riusciti a vedere. No, i parchi nazionali americani non sono tutti così. E non solo perché il National Park Service gestisce, oltre alle aree protette naturali, anche siti storici di dimensioni contenute. Insomma, se è vero che giganti come Yellowstone occupano novemila kmq (più dell’intera Umbria), è altrettanto vero che ci sono gioielli più “piccoli“, visitabili in modo soddisfacente anche con tempi ridotti.
È il caso del Joshua Tree National Park (“solo” 3mila kmq), del quale vi diamo alcune suggestioni basate su una visita recente.
Siamo nel sudest della California, un’area prevalentemente arida e infatti il parco è praticamente il punto di congiunzione tra due ecosistemi desertici, quello del Mojave e quello del Colorado. Le temperature sono quindi elevate, anche se ci si trova a quasi mille metri di quota, e occorre tenerlo presente accingendosi alla visita, soprattutto in estate. L’esplorazione basic, comunque, si può svolgere comodamente in auto partendo da nord e percorrendo un itinerario ad anello che è il più invitante tra quelli possibili. Infatti, l’accesso da sud, dal Cottonwood Visitor Center, è più scomodo e meno frequentato anche se proprio per questo più solitario e quindi più affascinante. Ma andiamo con ordine.
Dove fare base
Il centro abitato più comodo è Palm Springs, a una quarantina di km dall’ingresso ovest. Località mitica del jet set americano sin dagli anni Trenta, torrida quanto basta, disseminata di campi da golf, famosa per una teleferica che porta a 2500 m. di quota, Palm Springs ospita hotel di tutte le categorie e anche un bel museo. Alternativa più spartana e più sperduta ma più vicina al parco è Twentynine Palms, spalmata lungo il rettilineo infinito della strada n. 62, vicina a una base dei topgun della Navy; per noi sarà la conclusione del tour.
Il tour
Di buon mattino si lascia Palm Springs, si raggiunge Yucca Valley e poche miglia dopo ci si ferma al Joshua Tree Visitor Center, dove si fa scorta di acqua e di informazioni dai ranger (mappe, dépliant, suggerimenti ecc.). Il confine vero e proprio dell’area protetta è qualche miglio più avanti, alla West Entrance Station, e da lì in poi occorre osservare scrupolosamente le norme di comportamento, peraltro tipiche di tutti i parchi, ricordando che qui non ci sono punti di ristoro ma solo aree picnic e per campeggio
È probabile che non siate interessati ai percorsi di hiking; in tal caso 3 o 4 ore sono sufficienti per una visita soddisfacente, dipende da quanto vi fermerete nei vari punti di interesse lungo il percorso ad anello.
Il primo è la Hidden Valley, la Valle nascosta, dove i razziatori di bestiame nascondevano le mandrie, poi, se decidete di non spingervi sino a Key View (bel panorama), vi fermerete sicuramente allo Sheep Pass e ad ammirare le gigantesche formazioni rocciose di Jumbo Rocks.
Al bivio dopo Jumbo Rocks, prenderete a sinistra — a destra si va verso la parte più solitaria del parco e verso l’uscita più “scomoda” — e dopo la North Entrance Station un lungo rettilineo in discesa vi condurrà verso Twentynine Palms e la sosta vivamente consigliata all’Oasis Visitor Center che conclude l’itinerario.
Gli alberi
Lasciamo per ultime le note relative ai protagonisti del parco, cioè i Joshua trees. Così battezzati, secondo la tradizione, dai Mormoni, che vi videro la rappresentazione di Giosuè in preghiera con le braccia levate al cielo, hanno nome scientifico Yucca brevifolia. Come vedrete, sono molto fotogenici, specie in combinazione con le rocce giallo-rossastre del parco e, curiosità, hanno anche ispirato un famoso album degli U2.
Un consiglio importante
Il Joshua Tree non è un “parco wow”, nel senso che non vi troverete le abbacinanti meraviglie naturali di Yellowstone, Yosemite, Grand Canyon eccetera. È però un ambiente che — come molti altri — educa a un’osservazione silenziosa e attenta, osservazione che ·— non ci stancheremo di ripeterlo — va preparata nei Visitor Center. I plastici, i pannelli descrittivi, le ambientazioni con animali, rocce, manufatti, i filmati non sono corollari facoltativi. Sono viatici fondamentali — e, tra l’altro sempre essenziali e attraenti e mai noiosi — per capire dove ci si trova e imparare cosa e come osservare.
Così facendo vi assicuriamo che le scoperte sorprendenti non mancheranno, anche in poche ore di visita. Non dimentichiamo, infine, che se siamo arrivati sin qui abbiamo speso parecchi soldini e sarebbero oltremodo stupido limitarsi a una visita distratta. Ma questo, lo sapete, vale per ogni viaggio.
Fonte: lastampa.it – Marco Berchi