Uno studio appena pubblicato dalla Binghamton University di New York posticipa la fine della civiltà dell’Isola di Rapa Nui sulla base dei reperti archeologici arrivati fino a noi. È una lettura controcorrente rispetto alle precedenti
La storia del popolo dell’Isola di Pasqua, celebre per le sue statue monolitiche, non è di certo una delle più felici. Insediatisi su quella terra emersa nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, un piccolo gruppo di polinesiani riuscì, a partire dal 900 d.C., a costruire una civiltà stabile, durevole nei secoli nonostante la disponibilità molto limitata di risorse. Nel XVIII secolo lo sbarco degli europei – complici le malattie d’importazione e la spinta alla schiavitù – diede però il colpo di grazia alla popolazione originaria, della quale ritroviamo oggi (purtroppo) pochissime tracce, come se si fosse dissolta nel nulla.
La scarsità di prove ha sempre reso la ricostruzione delle vicende di questo popolo molto difficoltosa, tanto che c’è un dibattito aperto sull’origine della sua crisi: se al momento dell’arrivo dei coloni la popolazione fosse già vicina al tracollo, per intenderci –una versione molto condivisa – oppure no.
Oggi un team di archeologi al lavoro alla Binghamton University di New York ci dà una lettura rivoluzionaria, e lo fa con nuovi dati scientifici alla mano. L’analisi chimica dei materiali da costruzione delle enormi statue simbolo dell’isola e della sua civiltà, nonché delle piattaforme di supporto delle stesse, dimostrerebbe secondo i ricercatori che i lavori di costruzione sono andati avanti ben oltre la colonizzazione, avvenuta nel 1772: un’informazione importantissima, segno che la cultura locale non fu così facile da abbattere ed ebbe modo di protrarsi nonostante la presenza di invasori. E che forse la società, all’arrivo dei coloni, era bel lontana dal tracollo rispetto a quanto molti studiosi hanno ipotizzato finora.
Gli scienziati hanno appena pubblicato i risultati su Journal of Archaeological Science, rivista di riferimento del settore.
Fonte: wired.it
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