Attraversare il deserto del Sahara di corsa: la Marathon des sables
Pensare al Marocco suscita in me un mare di sensazioni e ricordi: gli ambulanti che vendono scimmie, serpenti e coltelli, i sacchi pieni di spezie, le fragranze e i profumi, così diversi da quelli della mia natia Virginia. Non ho mai capito perché ciò che ricordo del Marocco sia soprattutto questo; in fondo ho dedicato il 99% dei miei 40 giorni in questa regione a quella che si può descrivere solo come una deprivazione sensoriale nel bel mezzo del Sahara, la Marathon des Sables.
Marocco, per me, è sinonimo di Marathon des Sables, la massacrante corsa a tappe di sette giorni e 240 km che si corre nel deserto nordafricano con temperature medie che sfiorano i 40 °C. Negli ultimi 10 anni l’ho corsa due volte, nel 2009 e nel 2010, quando mi sono addirittura classificato terzo. Dopo tre anni come ultrarunner sponsorizzato – e dopo aver corso anche la Badwater 135 e la Barkley Marathons – la MdS resta una delle corse più dure cui abbia mai partecipato. Forse perché la prima volta, nel 2000, ero sostanzialmente un ‘guerriero della domenica’ senza alcuna esperienza. La distanza più lunga che avessi mai percorso erano gli 80 km della JFK 50 Mile. Allora mi piaceva tirar tardi la sera e correvo meno di 80 km a settimana, meno di una qualsiasi tappa della MdS. Ma questa è stata l’edizione della MdS che più mi è rimasta nel cuore.
Ero terrorizzato. Avevo già sperimentato corse a tappe vicino a casa, ma questa, in un paese esotico e distante, mi affascinava. La ‘maratona delle sabbie’ fu ideata nel 1986 da Patrick Bauer, un francese che dopo aver attraversato a piedi il Sahara trovò l’esperienza così rivoluzionaria da volerla condividere con altri.
Era la mia prima volta in Africa. Alla vigilia di una gara è normale provare una certa agitazione, ma non aiuta se ogni giorno alla partenza gli organizzatori ti sparano ‘Highway to Hell’ degli AC/DC a tutto volume. La corsa vera e propria inizia con una tappa ‘facile’ di 30 km su ondulate alture dal fondo sterrato duro e compatto, tranne che per un breve tratto di dune di sabbia. Arrivato in fondo a questa prima frazione – impolverato, sporco, affamato ed esausto – mi chiesi se davvero esistesse qualcuno in grado di tagliare il traguardo finale. Avevo fatto molti errori, come per esempio non tener conto della sabbia e fermarmi troppe volte per toglierla dalle scarpe.
Il cameratismo tra runner fu la mia ancora di salvezza. Rientrando in tenda dopo quella prima giornata, sapevo di poter contare su qualche prezioso consiglio da parte dei miei compagni. I veterani sono stati fondamentali nell’insegnarmi a restare fresco di giorno e caldo di notte, a gestire le poche calorie, andare in bagno e dormire sotto una tenda affollata. L’atmosfera era quella goliardica di un campo estivo, anche se la conversazione pareva sempre tornare alla ‘lunga giornata’. Ci aspettavano altre tre tappe, ma se non avessi messo a punto una strategia, non ce l’avrei mai fatta.
I berberi che ospitavano le nostre tende vestivano come i Sabbipodi di Guerre stellari ma senza averne l’aspetto minaccioso: erano sempre sorridenti e con un lampo negli occhi. Una sera, dopo esserci sistemati per la notte, il cielo si riempì di stelle e il bagliore surreale della Via Lattea ci lasciò basiti.
I giorni di gara successivi furono una vera e propria batosta. Coprivamo distanze di 30-40 km su terreni che dalla sabbia di dune alte due piani passavano alla polvere di letti fluviali inariditi chiamati wadi. A tratti le sabbie mobili ci afferravano i piedi, un secondo dopo il pietrisco ci sbriciolava le scarpe. La percezione della distanza era distorta dal fondersi di una duna in quella successiva. Eppure, poco alla volta cominciai a innamorarmi della vastità di questi panorami.
Il terzo giorno la fame prese il sopravvento. Visibilmente deperito per carenza di calorie, sentii un runner spagnolo gridarmi: “Bebe! Come!”. Conosco poco lo spagnolo, ma era evidente che mi stava esortando a bere e mangiare.
Il quinto giorno – il più lungo – è cruciale. Dicono che una volta superato questo scoglio hai la certezza di farcela. È una tappa di quasi 80 km da completare in appena 48 ore. Quel giorno era il mio venticinquesimo compleanno: ero il secondo runner più giovane del gruppo. Malgrado la partenza lenta fu una corsa perfetta, di quelle in cui tutto fila liscio. Le temperature erano dolci e il vento pareva una carezza gentile. Guidavo il secondo blocco di runner e al traguardo mi piazzai primo tra gli americani.
Le ultime due tappe sono maratone di 42 km su terreni clementi e relativamente pianeggianti. È a questo punto che si inizia a festeggiare, per la sensazione di avercela quasi fatta e perché sai che nulla ti impedirà di tagliare il traguardo. All’arrivo ci misero in mano una bibita fresca mentre l’orchestra suonava.
Mi sentivo confuso e lucido al tempo stesso. Pensavo alle montagne, alle vallate, al bianco abbacinante delle distese di sale e ai sassi neri affilati che mi avevano distrutto i piedi. Dopo tanti anni di corsa, tante gare eccezionali, la Marathon des Sables resta una delle mie preferite. È un’esperienza formidabile per i neofiti delle corse a tappe.
Ho imparato che conquistare un traguardo di questa portata fa sembrare più raggiungibile ogni altro obiettivo nella vita, si tratti di una corsa o di qualsiasi altra sfida. Correre la MdS mi ha regalato una fede smisurata nelle mie capacità.
Fonte: lonelyplanetitalia.it – Michael Wardian
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