Il paese dove vogliamo portarvi è un piccolo paese di ottomila abitanti, piazzato in un Marocco che è già quasi Algeria. Un paese dalla storia antica (1500-1600 dopo Cristo), dalle case basse, incompiute e perennemente scrostate
È un nomade di professione come Paul Bowles, scrittore statunitense che si fece adottare dal Marocco, a venirci in aiuto e spiegare alcune delle suggestioni che innescano il contatto con un luogo come M’Hamid El Ghizlane: “qui si tratta di secoli, non di migliaia di miglia”
In questo lembo di Marocco profondo, a pochi chilometri dall’Algeria, la strada asfaltata finisce e inizia il regno delle sabbie, il Sahara appunto, e il tempo sembra essersi fermato. È un posto acre come il pisé (un misto di argilla e paglia) con cui vengono costruite le case del paese, come le chiazze nel letto del fiume Drâa (un fiume qui praticamente sempre in secca, che non arriva al mare), come il colore prevalente delle automobili (perlopiù ocra), come la sfumatura del legno dei carretti trainati dai muli. Un posto alla fine del mondo, dove ancora arrivano i tuareg con le loro tende, i loro cammelli e i loro dromedari e dove vale come indicazione la scritta che qualche ottimista ha piazzato a Zagora, l’ultima cittadina che si incontra prima di incunearsi in un lungo tratto di implacabile hammada (un tipo di deserto con rocce aguzze e pietrisco) e arrivare a questa vera e propria porta del deserto che è M’Hamid El Ghizlane: la scritta recita “Timbouctou, 52 giorni” e si riferisce naturalmente al tempo di percorrenza della distanza a dorso di cammello.
Deve essere stato un ottimista a piazzare quella scritta, perché i paesi da attraversare per coprire la distanza dalla regione del Drâa a Timbuctu – l’Algeria e il Mali – hanno una serie di laceranti problemi: basti pensare alle frizioni e al contenzioso marocchino-algerino legato alle terre del sud, in particolare al Sahara Occidentale, che ha fatto diventare la frontiera tra i due stati quasi impermeabile e basti pensare alla deriva islamista del nord del Mali che ha provato in un primo tempo a inglobare la lotta identitaria della varie associazioni Tuareg, le quali per fortuna si sono piano piano dissociate dai deliri integralisti dei paladini della shaaria.
Festival des Nomades
Il viaggio che i nomadi del deserto hanno praticato per secoli è diventato sempre più difficile e pericoloso, eppure c’è chi lo attraversa ancora questo sentiero millenario ed è a questa sacca di resistenza sociale e culturale che viene dedicato da diciassette anni, su iniziativa dell’indomabile direttore artistico Noureddine Bougrab, il “Festival des Nomades” di M’Hamid El Ghzilane. Un festival sostanzialmente musicale, anche se nel suo carnet di proposte ci sono una serie di iniziative accessorie – la corsa dei dromedari, l’hockey sulla sabbia, la preparazione del pane di sabbia (mella), le conferenze e le proiezioni sulla cultura tuareg – che allargano il bacino tematico. L’orizzonte culturale di questa onda transnazionale tuareg (oltre ai tre stati già citati vanno inclusi anche Libia, Mauritania, Niger e Burkina Faso) fa leva soprattutto sulla cultura orale e in quest’ambito è proprio la musica a far da turbina ispirativa e sorgente emozionale.
Sono ancora le parole di Paul Bowles a “illuminare” bene la scena: “il pubblico del Marocco e delle città di confine del deserto algerino, dove dovevano recarsi, non avrebbe protestato se la vernice era scrostata, il metallo rugginoso, le pareti di legno rattoppate. L’importante era che il rumore fosse assordante, la luce sfarzosa. Lo scopo dichiarato era quello di ingenerare prima un senso di vertigine, poi di euforia”. Precetti condivisi, edizione dopo edizione, anche sul palco del “Festival des Nomades”, un proscenio che ha già accolto tutte le grandi stelle di questa matrice sonora (dai Tamikrest a Bombino, dai Terakaft a Kader Tahanin) oltre alle ancora acerbe pulsioni elettrificate di giovani band locali come Tarwa N-Tiniri e Jeunes Nomades.
Il festival sottolinea col suo cartellone una fenomenale vena aurifera delle culture nomadi, quella tuareg appunto. Un popolo spesso perseguitato, incompreso e reietto. Serve a ricordarsi, anche grazie a queste liasons sonore alle porte del deserto, che se pure è vero che per la loro anomalia sociale nessun governo di nessuno stato del mondo ha mai amato i nomadi, pure lo “scandalo” della loro scelta nomade, della loro cultura orale e del loro status apolide, non deve essere svenduto né imbavagliato. Ne va della loro libertà e, in fondo, anche della nostra.
I mercatini con tappeti, argille e gioielli
Insieme agli artisti e al pubblico nei giorni del festival arrivano anche i commercianti e gli artigiani con le loro bancarelle. È un bene che succeda, perché il paese non pullula certo di occasioni per lo shopping e in questo modo si ha l’occasione per curiosare tra i prodotti artigianali di regioni limitrofe. La tessitura del tappeto berbero ad esempio, ovvero il Tazarbit, che rappresenta l’attività più antica della regione. I tappeti più pregiati si possono ritrovare nella parte orientale di Ouarzazate, nei contra orti dell’Atlante o a Tazenakht, alle pendici del Jbel Siroua. Tradizione trasmessa di madre in figlia, l’arte di tessere questi tappeti domestici dai colori caldi e dai motivi geometrici ha valicato, ormai da tempo, i confini del Marocco. La ceramica berbera, invece, viene dipinta di nero, di rosso o di verde. A Tamegroute (famoso villaggio di vasai, distante pochi chilometri a sud di Zagora) per esempio, viene cotta in forni antichi ed è principalmente destinata all’uso domestico: piatti, brocche, boccali. Nella provincia di Ouarzazate non mancano ori eccellenti. Le donne berbere, infatti, non potrebbero mai fare a meno dei loro gioielli. I braccialetti d’argento incisi determinano l’appartenenza tribale; le spille triangolari, che vengono utilizzate per chiudere le tuniche femminili, rappresentano simboli protettori. La produzione di pugnali è la specialità della cooperativa Azlag, a Kelâat M’Gouna. Vicino agli oued (termine arabo per indicare un fiume) gli artigiani lavorano gli steli di canne e li trasformano in panieri, tavoli, sedie e librerie.
Le escursioni nella sabbia perenne
M’hamid El Ghizlane sta per “piana delle gazzelle”, ma di gazzelle non c’è traccia. Cammelli e muli sì. Le jeep non sono ancora riuscite a sostituirli del tutto e molte delle escursioni prevedono un ticket che alterna quattro ruote e quattro zampe. Oggi M’Hamid è centro nevralgico delle partenze verso il deserto gestite da piccole agenzie che vivono del turismo solidale come fonte di benessere e scambio culturale. Anche nell’approccio al grande mare ocra si possono avere esigenze e desideri diversi. Così ci sono agenzie che propongono anche escursioni extralusso in resorts circondati da una sorta di “deserto privato” e molte altre che propendono per una filosofia più spartana con tende montate di sera in sera, accampamenti e bivacchi molto essenziali, percorsi che seguono le vie dei cammellieri e ogni tanto sfidano le dune: erg Chegaga a 50 chilometri, erg Ezahar a 65 chilometri, erg Esma a 80 chilometri e le dune erg Lihoudi ed el Mesouiria a 8 chilometri ciascuna da M’Hamid. Se erg Chegaga è la più conosciuta e visitata, consigliamo vivamente di trovare il tempo per andare a el Mesouiria, dove si possono ammirare dune di sabbia bianca disseminate di tamarindi, piccoli arbusti dai fiori rosa a spighe.
Il battesimo del turbante
Dopo qualche giorno di permanenza da queste parti finirete anche voi per cedere al look del posto e comprarvi al prezzo di 50 dirham (circa 5 €) un chèche o tagelmust, il foulard lungo dai 4 agli 8 metri che si arrotola a turbante, indispensabile anche per iniziare a far parte della comunità frontaliera. Un capo particolarmente utile quando si scatena il vento (e si scatena spesso) ed è una specie di “battesimo della sabbia”, cui ci si sottopone volentieri perché portare un tagelmust equivale a leggere un libro sugli usi e costumi del popolo del deserto.
Fonte: lonelyplanetitalia.it – Valerio Corzani
Leave a reply