Il fiume, che forma un bacino idrografico di 3.254.555 kmq e vanta una portata di oltre 1.600 miliardi di metri cubi l’anno, attraversa paesi poveri e dipendenti dall’agricoltura che fanno affidamento sulle sue acque. E una serie di squilibri continuano a sussistere.
Sulla strada per Jnjia la successione senza fine di case, casette e casupole con il tetto di tegole rosse come la terra degli sterrati che le uniscono e di piccoli esercizi commerciali, si alterna a gigantesche piantagioni di tè e canna da zucchero, a terreni desolatamente disboscati e a tratti miracolosamente intatti della foresta tropicale che un tempo copriva l’Uganda. Questo doveva essere il paesaggio che videro gli esploratori alla ricerca delle mitiche sorgenti del Nilo, Speke, Stanley, Burton, Livingstone, e altri grandi protagonisti dell’epopea delle esplorazioni africane.
Quelle ufficiali del Nilo Bianco si trovano qui, all’estremità del Lago Vittoria, dove un verdissimo parco naturale fa da cornice alle risorgive che alimentano un corso d’acqua già imponente.
In realtà la situazione è più complessa: del Nilo persino oggi non si sa tutto, nemmeno se sia il fiume più lungo del mondo rispetto al Rio delle Amazzoni. In un caso come nell’altro il problema è capire dove nascono esattamente. Intanto di fiumi Nilo ce ne sono due e solo a Karthum, in Sudan, diventano uno. Il Nilo azzurro, infatti, nasce convenzionalmente dal Lago Tana in Etiopia. Come il Nilo Bianco, però, le vere sorgenti sono a monte dei laghi da cui escono tanto spettacolarmente. Gish Abbai, a 2744 metri di altezza, per il Nilo Azzurro che nel primo tratto si chiama Lesser Abbai e, forse, l’altopiano del Burundi per il Nilo Bianco, in un dedalo di affluenti e confluenti che formano il Kagera, immissario del lago Vittoria.
Una rete complessa, che forma un bacino idrografico di 3.254.555 kmq diviso fra 11 paesi: Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Ruanda, Sudan, Sud Sudan, Tanzania e Uganda. Nazioni povere e molto dipendenti dall’agricoltura che fanno sempre più affidamento sulle sue acque in una situazione resa drammatica anche dalla siccità cronica dovuta al riscaldamento climatico, che dal 2000 colpisce duramente tutta l’Africa orientale.
Dalla fertilità dell’Uganda allo sfruttamento massiccio dell’Egitto, passando per i deserti sudanesi, dove sopravvive solo sulle rive una piccola striscia di verde, è visibile a occhio la disparità nello sfruttamento delle risorse del grande fiume, frutto anche della pesante eredità coloniale.
I primi tentativi di regolare i rapporti tra confinanti risalgono infatti alla fine dell’Ottocento quando la gestione delle acque era condizionata dagli interessi dei Paesi europei, e in particolare della Gran Bretagna, che miravano ad accontentare le richieste egiziane in cambio del controllo di Suez. Non a caso, nel 1929, sotto l’egida della Gran Bretagna, viene stipulato un accordo che attribuisce all’Egitto 48 miliardi mc/anno contro i 4 miliardi del Sudan, sotto amministrazione anglo-egiziana, che si impegna anche a non progettare opere idriche sul Nilo e sui suoi affluenti che possano diminuirne la portata.
Ma se con l’indipendenza del Sudan l’accordo nel 1959 viene rinegoziato in modo meno penalizzante (55 mld di mc/anno all’Egitto e 18,5 di mld mc/anno al Sudan), sono andate crescendo le proteste dei paesi esclusi, come l’Etiopia, che fornisce l’86 % del flusso totale annuo del fiume, e si sono moltiplicate le iniziative per trovare un accordo.
Non aveva risolto, però, anzi aveva riacceso la controversia il Nile Cooperative Framework Agreement siglato nel 2010 a Entebbe, in Uganda, dopo dieci anni di trattative, che prevedeva modifiche al trattato coloniale del 1929 che dava all’Egitto il diritto di veto. Non stupisce che fosse stato proprio l’Egitto poco dopo a sospendere la sua adesione all’iniziativa, vanificandola: il 90% delle esigenze idriche degli 80 milioni di egiziani è soddisfatto proprio con le acque del fiume.
Proprio questa dipendenza tuttavia, e l’aggravarsi della crisi idrica nel paese dove la disponibilità pro capite è scesa a circa 640 metri cubi l’anno, ha spinto nel 2017 l’Egitto di al-Sisi a farsi promotore di un nuovo summit a Entebbe, dando stavolta la propria disponibilità a trovare una soluzione comune per una migliore gestione delle risorse dell’immenso fiume.
Il bacino del Nilo, infatti, ha una portata di oltre 1.600 miliardi di metri cubi all’anno, di cui solo 84 miliardi restano nel letto del fiume, mentre altri miliardi vanno sprecati per la mancanza di adeguati investimenti nelle infrastrutture.
L’Egitto, tuttavia, pone come condizione irrinunciabile il mantenimento della quota d’acqua assegnatali nel 1959 e questo complica i negoziati. Inoltre riprende così quota la controversa costruzione del canale di Jonglei, destinato a raccogliere i miliardi di metri cubi che spariscono, per dispersione ed evaporazione, nella zona paludosa del Sudd, nel Sud Sudan.
Il progetto egiziano che risale agli Anni ’70 e che è stato realizzato solo parzialmente, prevede 360 km di canalizzazione del Nilo Bianco ma è da sempre osteggiato dalla popolazione. Nella palude del Sudd, infatti, vivono milioni di capi di bestiame delle tribù pastorali dei Dinka, dei Nuer e degli Shilluk, i tre maggiori gruppi etnici del paese.
Inoltre nell’immensa palude, uno dei più grandi ecosistemi di acqua dolce del mondo, trovano il loro habitat innumerevoli specie di insetti, uccelli, rettili e mammiferi selvatici.
E il canale rischierebbe di diventare un nuovo fronte, l’ennesimo, nella “guerra dell’acqua” che secondo molti analisti, rischia di scatenarsi tra i paesi del bacino del Nilo.
Fonte: lastampa.it – CARLA RESCHIA
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